EDITORIALE
di Giovambatista Sgromo



A partire dall’inizio degli anni 80 le professioni giuseconomiche hanno subito una profonda trasformazione, tanto che sempre più spesso si ha la tentazione di accostare l’attività professionale all’impresa.
Numerosi sono i fattori che hanno determinato questa evoluzione e tra questi, certamente, una ipertrofica produzione legislativa ed un’accresciuta coscienza sociale della popolazione.
Il numero e la complessità delle leggi si sono sviluppati in modo tale da non consentire la gestione di alcuna attività economica senza l’ausilio di consulenti professionali.
Chiamati a queste responsabilità sempre più incalzanti, i professionisti si sono adeguati con la specializzazione. È sempre più raro il commercialista che segue la contabilità fiscale e quella dei lavoratori dipendenti, così come l’avvocato che segue il cliente nel campo civile come in quello penale. La specializzazione ha così determinato il sorgere di specifici settori professionali, quali i consulenti del lavoro, e l’esigenza degli studi integrati, composti, cioè, di esperti che integrano le rispettive peculiari conoscenze.
D’altra parte, l’accresciuta coscienza sociale della popolazione ha dato luogo al fenomeno della crescente domanda di giustizia e non solo nelle aule dei tribunali, ma anche in quelle delle commissioni tributarie.
Il convergere, sugli studi professionali, delle risultanze dei due fattori sopra cennati, ha comportato il moltiplicarsi dei ritmi di lavoro, solo in parte attenuato dalla tecnologia.
Computer, telefax, telefoni radiomobili, banche dati giurisprudenziali e legislative su Cd-rom, posta elettronica su Internet sono supporti tecnologici del professionista che solo fino a cinque anni fa erano riservati ad una sparuta avanguardia ed oggi sono l’insostituibile aiuto quotidiano.
Anche i costi necessari all’allestimento e al mantenimento della struttura tecnologica dello studio professionale hanno disegnato una nuova elica della spirale che avvicina sempre più il professionista all’imprenditore, ma tale accostamento, sebbene sotto diversi aspetti affascinante, evidenzia un limite invalicabile: la tutela del cliente.
I ritmi di lavoro non si possono spingere fino a fornire al cliente un prodotto superficiale e sciatto, mera copiatura di una ricerca giurisprudenziale per evocazione di parole. Si tratta di un limite di moralità sul quale si gioca l’esistenza stessa delle professioni giuseconomiche.
Non è facile fissare questo limite, soprattutto in un’epoca di transizione determinata anche da un’evoluzione tecnologica sempre più accelerata e che non permette di ipotizzare se e quando la transizione stessa si fermerà.
Ancora una volta dovrà essere il singolo a dare a quel limite una collocazione, accettando quel carico di lavoro che possa essere affrontato dedicando a ciascuna pratica la necessaria dose di capacità e di esperienza, in cui si compendia l’essenza della professione e che nessuna macchina è ancora in grado di sostituire.
A nessuno piace avere dei limiti, soprattutto in tempi come questi in cui, come ricordava Platone nel brano de “La Repubblica” riportato nel numero precedente di questa rivista, esiste quasi un’ubriacatura di libertà, ma i professionisti non possono permettere che ritmi troppo intensi di attività sviliscano la loro alta funzione ad una banale routine o li rendano semplici ripetitori di elaborazioni concettuali da altri compiute.
È un limite morale e umano sul quale ormai tutti si deve meditare.

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