Note e Dibattiti



 
 

Il problema delle spese nel fallimento

di Raffaele Capozzi
e Bruno Sed
 
 
 

UNA PROPOSTA

1. Il problema. Uno dei problemi maggiormente dibattuti del diritto fallimentare è senza dubbio quello delle spese del procedimento. 
Si tratta di un aspetto della materia che coinvolge delicati problemi giuridici ed i cui riflessi destano normalmente viva preoccupazione tra gli operatori della giustizia fallimentare. Chi abbia avuto a che fare con l’amministrazione di una procedura concorsuale può ben rendersi conto dei vuoti legislativi nella materia, i quali pongono gli interpreti davanti ad amletici dilemmi. Spesso, infatti, nell’impossibilità di adottare soluzioni conformi all’ordinamento, si finisce per dare luogo a palesi ingiustizie.
I problemi relativi alle spese si riscontrano nel fallimento, quando la procedura non disponga di liquidità per svolgere i primi e necessari adempimenti di legge (avvisi ai creditori, adempimenti fiscali, ecc.) ovvero, ipotesi che si verifica sovente, per retribuire l’opera del curatore.
Non meno serie preoccupazioni derivano nel caso in cui il fallimento, che pure disponga di un cospicuo attivo da liquidare o da recuperare, sia privo delle somme liquide per retribuire i professionisti che lo assistano nelle controversie o nell’attività di liquidazione. Ingiustificabile, secondo i princìpi dell’ordinamento, appare inoltre la soluzione che si adotta quando il fallimento sia revocato senza colpa del creditore istante. In questo caso, infatti, poiché la sentenza di revoca non può condannare quest’ultimo al pagamento delle spese della procedura ed al compenso del curatore, né queste possono essere poste a carico del fallito (cfr. Corte Cost., 6 marzo 1975 n. 46), si finisce nel non retribuire né il curatore, né il suo patrono, ponendo a carico degli stessi le spese rispettivamente sostenute per lo svolgimento della procedura e per il giudizio di opposizione.
Vani sono stati i tentativi di porre tali spese, ed anche il compenso del curatore nel caso di assenza attivo, a carico dell’erario, facendo leva sulla norma di cui all’art. 91 L.F..
 La Corte Cost. (sentenze del 22 novembre 1985, n. 302 e 30 dicembre 1993, n. 488) infatti, perdendo peraltro l’occasione di riparare il vuoto legislativo, ha stabilito che non appare al riguardo giustificata l’incostituzionalità dell’art. 91 L.F..
 La Consulta ha infatti reputato che la legalità della prestazione del curatore fallimentare non implica onerosità della stessa, “non difettando nella patria legislazione esempi di uffici gratuiti”. Inoltre, ai fini dell’inapplicabilità dell’art. 36 Cost. al curatore fallimentare, il giudice delle leggi ha stabilito che lo stesso “non può essere qualificato alla stregua di un lavoratore, nel senso sostantivo indicato dalla Costituzione”.
 Da ultimo, con riguardo all’art. 3 Cost. e quindi alla ingiustificata disparità di trattamento con situazioni analoghe, si è affermato che poiché l’accettazione della nomina di curatore non riveste carattere obbligatorio, non vi sarebbe diversità di trattamento rispetto al perito che presta la propria opera nel processo, che non può, per contro, sottrarsi all’ufficio cui è chiamato.
Nella prassi, i tribunali, al fine di attenuare gli effetti dei problemi enunciati, hanno escogitato di affidare a quei professionisti che non hanno avuto modo di essere adeguatamente retribuiti, incarichi probabilmente più lucrosi, a scopo, per così dire, compensativo.
 Non si può tuttavia sfuggire alla sensazione che si tratti di un escamotage pratico che non risolve nella sostanza il problema, costituito essenzialmente dall’assenza di un complesso di norme che consentano di retribuire adeguatamente il professionista che presta la propria opera e di non far ricadere sullo stesso il costo dell’adempimento dell’incarico affidatogli. Ciò è vieppiù ingiusto se si considera che tali professionisti svolgono una funzione connotata da aspetti pubblici.
Il profilo che assume tuttavia maggiore rilievo, nel caso in cui la procedura sia priva dei mezzi finanziari per perseguire i propri fini, è quello che riguarda la tutela degli interessi e dei diritti del ceto creditorio, che nel fallimento devono trovare concreta attuazione. È innegabile che di fronte ad un curatore impotente ad agire per il recupero del patrimonio del fallito, quando ciò sia causato dalla mancanza dei fondi per intraprendere le azioni necessarie, l’attuazione della giustizia soffre. In tal caso, i creditori sono costretti a rinunciare ad esercitare, per il tramite del curatore, i propri diritti patrimoniali connessi alla procedura concorsuale e sostanzialmente diretti al recupero ed alla ricerca del patrimonio su cui soddisfarsi.

2. Gli strumenti esistenti. I problemi sopra descritti esistono nonostante la presenza nell’ordinamento di istituti che dovrebbero, almeno teoricamente, sopperire alla bisogna.
Questi sono: l’istituto dell’anticipazione delle spese da parte dell’erario, prevista dall’art. 91 L.F., ed il gratuito patrocinio. I problemi connessi all’interpretazione dell’art. 91 L.F. sono noti. La norma stabilisce che sono anticipabili dall’erario solo le spese per gli atti necessari della procedura, dove per necessari devono intendersi gli atti comuni a tutte le procedure e da cui non può prescindersi per portare a compimento il procedimento fallimentare.
L’interpretazione prevalente della Cassazione è nel senso restrittivo ed individua la ratio della norma nella volontà del legislatore di porre a carico dell’erario solo le spese indispensabili per giungere alla chiusura della procedura, che non dipendono quindi dalla discrezionalità degli organi della stessa (cfr. Cass., 28 maggio 1979, n. 3072). Numerosi “tipi” di spese processuali non si ritiene che rientrino tra quelli previsti dall’art. 91.
L’istituto dell’anticipazione delle spese da parte dell’erario serve dunque, nell’intento del legislatore (quantomeno secondo l’interpretazione che ne fanno i giudici), per soddisfare uno specifico interesse di carattere pubblico connesso alla procedura fallimentare e diretto all’eliminazione delle imprese decotte dal mercato. 
Il legislatore non tiene conto, quindi, degli aspetti patrimoniali coinvolti nella procedura che si riferiscono al ceto creditorio, i quali sono legati al recupero ed alla reintegrazione del patrimonio del fallito; a titolo di esempio, le spese per l’esperimento di un’azione revocatoria non sono attribuibili all’erario. L’istituto del gratuito patrocinio è regolato dal R.D. 30 dicembre 1923 n. 3282.
È un istituto caratterizzato da un alto grado di farraginosità, che ne fa uno strumento pressoché inutilizzato e del tutto marginale.
Gli ultimi dati raccolti dall’Istat per il periodo 1970-1980 (successivamente a tale decennio i dati non sono stati più presi in esame, essendo il fenomeno stimato ormai trascurabile) dicono che nel 1970 solo per lo 0,55% delle cause civili di primo grado è stato accordato il gratuito patrocinio a carico dello Stato, mentre nel 1979 la percentuale è scesa allo 0,2%.
La legge che regola l’istituto prevede invero all’art. 15 che “nel procedimento fallimentare il gratuito patrocinio è concesso se nel patrimonio del fallito non è disponibile il denaro necessario alle spese giudiziarie occorrenti per la procedura che la legge richiede.”
L’istituto serve essenzialmente per porre a carico dell’erario le spese per le imposte di bollo e di registro. Infatti, l’avvocato designato non è retribuito, trattandosi di un ufficio gratuito, onorifico e obbligatorio della classe forense.
Molteplici sono le ragioni che contribuiscono a fare del gratuito patrocinio un istituto praticamente inutilizzato ed inutilizzabile (su cui non è il caso di indugiare in questa sede); tuttavia, il motivo principale risiede senza dubbio nella errata convinzione del legislatore che l’opera gratuita possa essere prestata con la stessa efficacia e solerzia di quella retribuita.
Non sfugge quindi al lettore che l’inutilità di questi istituti, per le esigenze delle procedure fallimentari, dipende dal fatto che lo scopo per il quale sono stati creati è quello di garantire esclusivamente la soddisfazione di interessi pubblici connessi al fallimento.
Non sono, per contro, idonei ad assolvere concretamente i bisogni e le esigenze del creditore che, per mezzo della procedura concorsuale, spera di conseguire un parziale soddisfacimento del proprio credito. Occorre quindi prendere atto dell’esistenza di questa dicotomia e del fatto che i costi della procedura fanno carico sullo Stato solo eventualmente e solo per le spese necessarie per realizzare gli interessi di natura pubblica.
Per quanto concerne invece le aspettative dei privati, gli oneri per il loro conseguimento non sono mai posti a carico della collettività.
Anche quando fu creato un fondo “destinato ad attribuire compensi ai curatori che non poterono conseguire adeguate retribuzioni e premi di rendimento ai magistrati e funzionari di cancelleria addetti al servizio dei fallimenti”, con la legge 10 luglio 1930, n. 995 (poi abrogata con D. Lgs. 23 agosto 1946 n. 153 e D.M. 4 giugno 1949) lo Stato non vi destinò alcuna risorsa: il fondo era infatti alimentato con versamenti dei curatori stessi, i quali erano tenuti al pagamento di una aliquota non superiore ad 1/5 sulla parte di compenso eccedente le 2.000 lire.
Sarebbe certamente auspicabile una riforma legislativa degli istituti esaminati, per renderli maggiormente idonei al perseguimento degli scopi propri delle procedure concorsuali, ma ciò implicherebbe per lo Stato dover mettere a disposizione ricchezze per finanziare la giustizia ed il buon funzionamento delle sezioni fallimentari: il che, in un periodo di pressante contrazione della spesa pubblica, è alquanto improbabile, se non impossibile, aspettarsi.

3. La proposta. Si pone quindi con estrema urgenza l’esigenza di apprestare idonei istituti per incrementare la professionalità dei curatori fallimentari e per fornire agli stessi i mezzi affinché possano svolgere celermente e proficuamente la propria attività.
 Non si può tuttavia richiedere agli stessi uno sforzo in tal senso, senza prospettare l’esistenza di un sistema funzionale che preveda la sicurezza di un pur minimo, ma sicuro compenso.
Ciò che si propone è la creazione di un fondo obbligatorio alimentato con modesti versamenti delle imprese che fornisca alle procedure fallimentari prive di liquidità le somme necessarie per svolgere la propria attività: sia quella necessaria, sia quella di recupero.
Nei casi in cui il fallimento sia privo di liquidità, anche se transitoriamente, il fondo dovrebbe porre a disposizione del curatore una somma stabilita dal giudice delegato, a seconda delle situazioni e dell’importanza della procedura, necessaria per il compimento di tutte le operazioni obbligatorie e non, e per retribuire, in caso di definitiva assenza di attivo, il curatore stesso ed i professionisti che eventualmente lo avessero assistito. Ovviamente, non si dovrebbe trattare di un versamento a fondo perduto. Nel caso in cui il fallimento dovesse recuperare attivo, si dovrebbe in primo luogo rimborsare il fondo stesso delle somme erogate, come già avviene per il campione fallimentare.
Qualora invece il fallimento dovesse chiudere senza attivo, le spese sostenute rimarrebbero a suo definitivo carico.
Un regolamento del Ministro di Grazia e Giustizia dovrebbe anche stabilire il funzionamento interno del fondo, le modalità di investimento delle somme a disposizione, nonché determinare l’ammontare dei versamenti a carico delle imprese.
Tali norme dovrebbero tuttavia evitare burocratizzazioni eccessive e complicazioni del funzionamento. A tale scopo sembrerebbe opportuno preferire una struttura a carattere privatistico gestita da rappresentanti delle stesse categorie professionali coinvolte nell’amministrazione della giustizia fallimentare (magistrati, avvocati, dottori commercialisti e ragionieri) e delle imprese.
I contributi a carico delle imprese dovrebbero essere commisurati alla dimensione dell’impresa ed alla forma in cui questa è esercitata. Le società di capitali dovrebbero sicuramente conferire una somma maggiore di quelle di persone o delle imprese individuali, ad esempio. E così le s.p.a. con alcuni miliardi di capitale sociale dovrebbero contribuire in maniera più sostanziosa delle s.r.l. con capitale minimo. 

4. Le ragioni della proposta. Come già detto, il fallimento in alcuni casi non può perseguire e raggiungere i suoi scopi di natura privatistica per mancanza dei mezzi necessari.
Ciò nuoce ai creditori, che assistono inerti all’abbandono da parte del curatore di diritti di natura patrimoniale.
Sussiste quindi un apprezzabile interesse da parte dei creditori delle imprese fallite, affinché la “macchina” della procedura fallimentare funzioni adeguatamente.
Considerato che il costo per l’esercizio di un diritto dovrebbe essere posto a carico del titolare dello stesso, ciò potrebbe, almeno astrattamente, giustificare l’accollo alla categoria delle imprese di un versamento che pur potendo essere verosimilmente considerato come l’ennesimo balzello nell’Italia delle mille tasse (e che sarebbe probabilmente soprannominato “la tassa per i curatori”), in realtà appare necessario per la tutela di un loro interesse, quantunque si tratti di una tutela mediata.
Senza voler entrare in questa sede nel merito delle teorie relative alla qualificazione della natura giuridica del curatore, appare indubitabile che l’attività dallo stesso svolta sia caratterizzata da profili sia privatistici, sia pubblicistici.
Il curatore è infatti organo di giustizia che persegue scopi di carattere generale, ma del suo operato fruiscono i creditori, il cui fine ultimo è quello del recupero del credito nella percentuale più alta possibile ed in modo paritario tra gli stessi.
Non è un caso infatti che il Codice di commercio del 1882 definisse il curatore alla stregua di mandatario dei creditori, qualificazione giuridica che si è via via “pubblicizzata” prima con il codice del 1865 e poi con la legge del 1942.
Lo scopo del fondo in questione sarebbe essenzialmente quello di disporre di uno strumento che consenta lo sveltimento ed il buon andamento delle procedure fallimentari.
L’interesse dei creditori alla realizzazione di questi obiettivi è indubitabile. E lo è anche quando il fallimento si chiuda per assoluta mancanza di attivo, in quanto, anche in questo caso, viene effettuata una analisi della documentazione dell’impresa e sono vagliate le possibilità di recuperare i beni del fallito, ovvero di reintegrare il suo patrimonio.
Pertanto, quando il fallimento si chiuda per mancanza di attivo, tale esito non esclude di certo che sia stata svolta un’analisi economica e giuridica della situazione patrimoniale del fallito, che deve essere di per sé apprezzata e retribuita.
Il fondo sarebbe destinato a servire gli interessi delle imprese in bonis, visto che sono comunque queste, quantomeno nella stragrande maggioranza dei casi, i creditori delle procedure concorsuali.
Sotto questo aspetto quindi sarebbero i soggetti in bonis che, costituendo uno strumento e sostenendolo finanziariamente, tutelerebbero in modo proficuo i propri interessi.


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