GIURISPRUDENZA
ROMANA
Note e dibattiti 1997
(con nota di Andrea Pietrolucci)

Tribunale di Roma - Sez. fallimentare - 28 aprile 1997 - Pres. Grimaldi - Est. De Virgiliis - Fall. della Toscocarne di Lucio Di Venosa & C. s.n.c. e Lucio Di Venosa in proprio (avv. A. Maisani) c. S.p.A. Finitalia (avv. M. T. Savino e P. Marsico).

FALLIMENTO - BENI NON COMPRESI - ASSEGNI E INDENNITÀ - LIMITI - DECRETO - MANCANZA - ACQUISIZIONE PER INTERO. (Art. 46 L.F.)
In mancanza del decreto del giudice delegato che fissi i limiti di quanto occorra al fallito per il mantenimento suo e della sua famiglia, è acquisito per intero al fallimento ciò che il fallito guadagna con la sua attività.

(omissis)
Ritiene il collegio che i tre contratti conclusi dal fallito con la Finitalia S.p.A. ricadano nella previsione dell’art. 44 L.F. e debbano quindi considerarsi totalmente inefficaci nei confronti della massa.
I fatti descritti in narrativa sono assolutamente pacifici: dall’esame della documentazione in atti si evince che il Di Venosa ebbe a stipulare con la convenuta tre contratti in mutuo, con relativo piano di rimborso in 36 rate mensili di misura costante, cui accedeva il mandato irrevocabile conferito alla società datrice di lavoro (la Standa S.p.A.) a trattenere mensilmente dalla retribuzione gli importi dovuti alla Finitalia S.p.A. ed a versarli direttamente a quest’ultima.
Orbene, è evidente che tali pattuizioni, come qualunque attività di natura negoziale posta in essere dal fallito dopo il fallimento, sono colpite dalla sanzione di inefficacia prevista dall’art. 44 L.F., che investe sia gli atti propriamente detti, sia quelli che ne costituiscono l’esecuzione e la conseguenza. Sotto tal profilo quindi sono da ritenersi inefficaci anche le conseguenze di natura patrimoniale che sono scaturite in favore della convenuta in esecuzione dei predetti contratti di finanziamento.
Non sembra in proposito accoglibile la tesi della convenuta (prospettata peraltro solo in comparsa conclusionale), secondo la quale la mandataria Standa S.p.A., assunto in via autonoma e diretta “l’obbligo irrevocabile a trattenere mensilmente su tutte le competenze retributive spettanti al Di Venosa ... le suddette rate di rimborso”, non sussisterebbe la legittimazione passiva della Finitalia S.p.A..
Ove anche si volesse considerare, infatti, che i versamenti mensili compiuti dalla Standa S.p.A. costituissero pagamenti effettuati non dal fallito, ma da un terzo, gli stessi sarebbero comunque colpiti dall’inefficacia, in quanto pur sempre compiuti per conto del fallito, con contestuale rivalsa nei confronti di costui da parte della Standa S.p.A., che infatti contemporaneamente operava una trattenuta di corrispondente ammontare sulle somme costituenti la retribuzione del Di Venosa. (cfr. sul punto il principio dettato da Cass. n. 1785/89 in tema di inefficacia ex art. 67 L.F., pienamente applicabile anche al caso di specie). In ogni caso, anche nell’ipotesi descritta, la legittimazione passiva è pur sempre quella dell’accipiens.
Del pari non può condividersi l’assunto della convenuta allorché sostiene che gli atti negoziali in questione non sarebbero passibili di declaratoria di inefficacia, in quanto il Di Venosa avrebbe con tali negozi disposto di somme non comprese nel fallimento ai sensi dell’art. 46 n. 2 L.F..
Pur potendosi in via astratta aderire a tale impostazione (affermata anche dalla non recente pronuncia della S.C. n. 260/57), vi è da osservare che nel caso di specie le somme di cui il Di Venosa ha disposto erano, per l’appunto, comprese e non già escluse dal fallimento. Contrariamente a quanto dedotto dalla Finitalia S.p.A., infatti, la norma di cui all’art. 46 L.F. nella corretta interpretazione, dispone che in mancanza del decreto del g.d. (volto a fissare i limiti entro i quali gli stipendi, gli assegni, le pensioni e simili di pertinenza del fallito sono esclusi dal fallimento), l’acquisizione in favore della massa si estende a tutte le somme a tali titoli percepite dal fallito.
Orbene, poiché a quanto risulta il predetto decreto non è mai stato emanato (né il contrario è stato dedotto dalla convenuta), ne consegue che gli atti del fallito de quibus, in quanto riguardanti beni compresi nel fallimento, sono pienamente suscettibili della declaratoria di inefficacia, con conseguente condanna della convenuta alla restituzione delle somme riscosse in esecuzione dei predetti contratti. 
Non appare accoglibile, invero, l’eccezione di compensazione sollevata in via subordinata dalla convenuta. L’eventuale credito residuo della Finitalia S.p.A. 
nei confronti del fallito non può infatti essere compensato con il credito di restituzione delle somme percepite a seguito di atti inefficaci, che costituisce credito 
di massa (cfr: sul punto Cass. n. 2370/75) ed è assolutamente pacifico che per l’operatività della compensazione si richiede che i crediti contrapposti siano pre-
esistenti al fallimento, laddove nel caso di specie trattasi di crediti successivi 
(cfr. Cass. 1689/84).
Al fine di determinare quale sia, in concreto, la somma dovuta dalla Finitalia S.p.A., va sottolineato che la declaratoria di inefficacia ex art. 44 L.F. è stata emessa a partire dalla data della dichiarazione di fallimento, nella quale si individua il momento della “cristallizzazione” del patrimonio del fallito e si estende a tutto quanto conseguito da chi con il fallito ha contrattato: di conseguenza, la convenuta è tenuta, come si è già detto, alla restituzione di tutto quanto percepito, in esecuzione dei contratti, sino alla data della presente pronunzia. 
(omissis)

"Sui guadagni del fallito e sulle sue necessità di vita"

di Andrea Pietrolucci
Con la sentenza in oggetto, la Sezione fallimentare del Tribunale di Roma ha dichiarato inefficaci, ai sensi dell’art. 44 L.F., i contratti di mutuo intercorsi tra il fallito e la società convenuta, nonché i pagamenti conseguenti alla stessa, effettuati dal fallito tramite rimesse dirette del suo datore di lavoro e trattenute per pari importo dal suo stesso datore di lavoro.
Il tribunale, conformemente all’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prevalente, ha ritenuto inefficaci, quindi, sia gli atti propriamente detti, sia quelli che ne costituiscono l’esecuzione e la conseguenza.
Con la presente breve nota si intende analizzare quella fra le questioni giuridiche affrontate nella sentenza in oggetto, che appare allo stato forse meno definita dalla dottrina e dalla giurisprudenza e cioè la disciplina dei beni di cui all’art. 46 n. 2 L.F. [1] in relazione al fallito che presti attività lavorativa presso terzi, anche dopo il fallimento.
Al riguardo, la società convenuta aveva eccepito l’impossibilità di dichiarare l’inefficacia degli atti negoziali intercorsi con il fallito in quanto lo stesso avrebbe con essi disposto di somme non comprese nel fallimento, ai sensi dell’art. 46 n. 2, L.F..
Il tribunale di Roma ha disatteso tale eccezione ritenendo, al contrario, dette somme comprese e non escluse dal fallimento in quanto, non risultando emanato 
il decreto di cui all’ultimo comma dell’art. 46 L.F., volto a fissare i limiti entro 
i quali gli stipendi, gli assegni, le pensioni e simili sono esclusi dal fallimento, 
tutte le somme a tali titoli pervenute al fallito si dovevano intendere acquisite dalla massa.
Detta interpretazione è sicuramente conforme all’opinione maggioritaria della dottrina.[2] Vi è tuttavia anche chi ha ritenuto che, precedentemente al decreto del g.d., la regola circa la sorte di dette somme debba essere quella dell’esclusione e non quella dell’inclusione delle stesse nell’attivo fallimentare e che, pertanto, il fallimento possa apprendere tali somme solo successivamente al decreto stesso.[3]
Si è, poi, discusso circa la natura giuridica del decreto del giudice delegato ex art. 46, comma 2, L.F. e circa la sua impugnabilità.
Si ritiene che detto decreto integri un procedimento, speciale ed esclusivo, di accertamento di diritti ad opera degli organi della procedura, ai sensi degli artt. 25 e 26 L.F..
Tale provvedimento deve essere, quindi, necessariamente impugnato con reclamo al Tribunale, ex art. 26 L.F., rimanendo esclusa la possibilità del suo gravame diretto per Cassazione, ex art. 111 Cost..[4]
Si ritiene, invece, ricorribile direttamente per Cassazione (ex art. 111 Cost.) il successivo decreto del Tribunale, essendo lo stesso emesso a conclusione della impugnatività del provvedimento del g.d. ed assumendo, quindi, i caratteri sostanziali della sentenza, quali la decisorietà e la definitività.[5]
Si è, inoltre, discusso, con soluzioni discordanti, circa il rapporto tra la norma in oggetto e quella di cui all’art. 545 cod. proc. civ., che, al suo 4° comma, limita ad un quinto la pignorabilità delle somme dovute ai privati a titolo di salario, di stipendio e/o di altre retribuzioni equivalenti.
Parte della dottrina ha ritenuto, infatti, che l’art. 545 cod. proc. civ. debba trovare applicazione anche in sede fallimentare, per l’espresso richiamo dell’art. 46 n. 5 L.F.[6] e che la discrezionalità del g.d. nel fissare i limiti ex art. 46, 2° comma, L.F., relativamente alla sequestrabilità e pignorabilità di stipendi, salari e retribuzioni equivalenti, sia limitata, quindi, come nella procedura esecutiva individuale, dalle norme speciali di cui al D. Lgs. C. p. S. 10/12/1947 n. 1548 (modificativo dello stesso art. 545 cod. proc. civ.), per i dipendenti privati e dal D.P.R. 5/1/1950 n. 180, per i dipendenti della pubblica amministrazione.[7]
Altri, al contrario, hanno affermato che i limiti di sequestrabilità e di pignorabilità contenuti in questi provvedimenti legislativi ed in altri consimili debbano ritenersi operanti solo nel procedimento esecutivo individuale, affermando che l’esecuzione concorsuale sarebbe derogativamente governata dall’onnicomprensività, con il solo limite della valutazione discrezionale del giudice.[8]
Sembra, ad avviso di chi scrive, che uno spunto di riflessione ulteriore, in raffronto fra tali due contrapposte posizioni, possa essere ricercato nel valore di legge speciale o generale delle disposizioni in esame, nonché nella successione delle stesse nel tempo.
Va, infatti, osservato che:
a] il D. Lgs. C.p.S. 10/12/1947 n. 1548 ed il D.P.R. 5/1/1950 n. 180 possono
 indubbiamente definirsi quali leggi speciali;
b]  gli stessi sono temporalmente posteriori alla legge fallimentare;
c]  a legge fallimentare, regolando in maniera organica un importante istituto 
 di diritto privato, può definirsi quale legge generale.[9]
Con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione anche in materia il principio lex specialis posterior derogat priori generali.
Il che dovrebbe comportare l’applicazione dei predetti decreti anche in materia fallimentare.[10]
Si segnala, infine, per la possibile attinenza alla fattispecie di cui alla sentenza in commento (ricorso al credito da parte del fallito), la Cassazione 2 settembre 1995, n. 9268. In detta sentenza, infatti, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Il riconoscimento delle esigenze di mantenimento del fallito e della sua famiglia, per le finalità dell’art. 46, comma 1, n. 2, L.F., non richiede la contemporaneità tra la necessità addotta e la disponibilità delle somme atte a soddisfarla; la situazione indicata dalla legge può essere integrata anche nel caso in cui il fallito abbia soddisfatto dette esigenze vitali facendo ricorso al credito, con relativi obblighi di restituzione, salva naturalmente la prova in fatto delle predette situazioni”.
Da ciò si sarebbe potuta far derivare la possibilità, per l’istituto mutuante convenuto, di richiedere, in via di eccezione riconvenzionale, direttamente al g.i. della causa intentata dal fallimento ex art. 44 L.F., in via diretta o surrogatoria del fallito, l’accertamento e la dichiarazione della quota di retribuzione non acquisibile dal fallimento, ex art. 46 n. 2 L.F., così come destinata a restituire il credito ottenuto per far fronte ad esigenze vitali.
La prova in fatto della destinazione del credito ottenuto per il soddisfacimento delle esigenze vitali del fallito potrebbe, inoltre, essere utilmente, anche se non esclusivamente, desunta o esclusa dalla stessa disciplina del mutuo.
Qualora infatti il mutuo contratto fosse “di scopo”, la finalità per la quale la somma sia stata mutata entrerebbe a far parte dello stesso schema causale del contratto, con l’obbligo del mutuatario di perseguirla, semplificando notevolmente l’accertamento delle condizioni di cui sopra.