NOTE E DIBATTITI
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FORUM:

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“revocatoria”
bancaria
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Le banche sono assai spesso nel mirino dei curatori che dedicano 
sempre particolare attenzione ai rapporti che l’imprenditore ha intrattenuto con gli istituti di credito, tradizionalmente ed a ragione considerati creditori forti, in grado cioè di imporre al debitore le loro condizioni e talvolta anche pagamenti, malgrado la situazione di
difficoltà o addirittura di dissesto. 
L’importanza del tema ha indotto la Rivista a riunire
intorno ad un tavolo della redazione l’avvocato Maria Teresa Persico, l’avvocato Lucio Ghia ed il dottore commercialista Renzo Mechelli,
tutti valorosi professionisti che operano nella
sezione fallimentare del Tribunale di Roma, insieme al
consigliere Umberto Apice, appassionato e profondo
cultore della materia fallimentare. 

Coordinatore del Forum è stato
il direttore scientifico della Rivista, 
Consigliere Sergio Di Amato.
DI AMATO
Partiamo da una osservazione di carattere generale. L’imprenditore in stato di insolvenza che continua ad operare costituisce un rischio per l’economia generale, potendo travolgere nel proprio dissesto altri imprenditori e, comunque, altri soggetti, con un elevato costo sociale, a volte, come nel caso dei lavoratori dipendenti, almeno in parte direttamente sopportato dallo Stato. Il credito concesso ad imprenditori insolventi, che pure siano ancora in grado di fornire garanzie di terzi (i soci di società di capitali prestano frequentemente garanzie personali e reali), finisce così per esporre pericolosamente i c.d. creditori deboli, sforniti di garanzie, come ad esempio i fornitori. Cosa dovrebbero fare le banche, secondo voi, per distinguere una situazione di difficoltà da una situazione di insolvenza?

MECHELLI
Vi sono molti strumenti utili per la cosiddetta “diagnosi precoce” delle difficoltà dell’impresa. Tuttavia la fonte informativa più importante in senso assoluto è l’analisi degli ultimi bilanci. L’indagine del bilancio annuale che, per l’organismo aziendale, ha una funzione equivalente a quella che le analisi cliniche e radiologiche hanno per l’organismo umano, deve essere accompagnato anche dall’esame critico dei bilanci degli esercizi immediatamente precedenti. Vi sono, però, anche altre fonti importanti. La Centrale dei rischi gestita dalla Banca Centrale che indica i fidi complessivi conferiti dal sistema bancario a uno stesso cliente e, di contro, le loro esposizioni effettive. I dati sui protesti cambiari e di assegni gestiti dal Cerved, che da alcuni anni è possibile consultare, a condizioni non proibitive, col proprio computer. Inoltre, le banche dati gestite dai Tribunali e dalle Preture sulle cause attive o passive pendenti. Non occorrono molte parole per sottolineare il valore sintomatico delle esecuzioni a carico di un’impresa; tuttavia, anche la conoscenza delle cause attive e passive di cognizione pendenti nei vari gradi può fornire preziose informazioni.

PERSICO
Vorrei sgombrare il campo dall’idea che i mezzi a disposizione delle banche per conoscere con sufficiente precisione la situazione in cui versa un imprenditore possano rappresentare da soli un argomento per ipotizzarne una responsabilità extracontrattuale nei confronti di terzi pregiudicati dal credito concesso dalle banche e dalla conseguente prosecuzione dell’attività dell’imprenditore: i dati di cui ha parlato Mechelli sono spesso parziali, chi concede credito ad un imprenditore fida nella capacità di chi lo riceve di far fronte alle proprie obbligazioni e, infine, il sovvenendo spesso espone, talvolta fraudolentemente, un’immagine della propria impresa che non è aderente alla (deteriore) realtà, rendendo la banca non meno vittima degli altri creditori.
Sotto questo profilo un banchiere non avveduto può, dietro costituzione di garanzie reali, concedere credito ad un imprenditore insolvente pre-giudicando così sia i creditori non privilegiati anteriori che quelli successivi e comportando tra l’altro ritardo nella dichiarazione di fallimento.
In queste situazioni ci si deve chiedere quale sia, eventualmente, il presupposto giuridico della responsabilità della banca nei confronti dei creditori deboli. Taluni hanno ritenuto di individuare il fondamento di tale responsabilità nella lesione aquiliana del diritto di credito dei terzi basata dunque sull’atipicità dell’illecito previsto dall’art. 2043 cod. civ. All’accoglimento di tale fonte di responsabilità per la banca nel caso di concessione abusiva del credito, osta, però, la considerazione, a mio sommesso avviso dirimente, che l’attività illecita del banchiere e del sovvenuto non lede immediatamente e direttamente il diritto dei creditori chirografari che rimane perfettamente integro, ma solo la sua possibilità di essere soddisfatto (in altri termini è la garanzia patrimoniale del creditore a venire meno ma non il diritto di credito). Tanto più che il finanziamento, di per sé, dà luogo ad incremento del patrimonio del debitore e non ad un depauperamento.

GHIA
Vorrei aggiungere una considerazione. Si ha talvolta la sensazione di una caccia allo sconfinamento per promuovere azioni revocatorie che rappresentano per le banche italiane un pesante aggravio che le penalizza rispetto alla concorrenza europea. Questa caccia non è ragionevole. E’ evidente che i fenomeni di difficoltà motivata da occasionali squilibri funzionali (quali attesa di pagamenti e richieste di dilazioni), legata alla necessità di far fronte a stipendi ed a pagamenti di carattere strutturale dell’azienda (tasse, oneri previdenziali) vanno ben distinti da situazioni marcate da un pesante divario tra capitale di rischio e capitale di credito, da evidenze negative di bilancio, ovvero da protesti celebrati o procedure esecutive iniziate. È evidente, infatti, che in quest’ultimo caso, lo sconfinamento e la relativa concessione di credito si inseriscono in una cornice di carattere fallimentare. In tutti gli altri casi lo sconfinamento non può identificare di per sé, per la banca, situazioni necessariamente diverse dal momentaneo squilibrio tra entrate ed uscite. Certo è che lo sconfinamento occasionale non deve diventare la regola, poiché in ciò si annida l’abuso e il presupposto per la revocatoria. Gli sconfinamenti che rispondono ad esigenze finanziarie eccezionali non costituiscono necessariamente le tessere di un mosaico di decozione, mentre producono innegabili effetti positivi dando la possibilità all’imprenditore di superare momenti di squilibrio tra entrate e uscite, confermando valori produttivi e socio-occupazionali.

DI AMATO
La casistica giudiziaria mostra che spesso gli istituti di credito elaborano complesse operazioni per costituire garanzie dei loro crediti o per ottenerne il pagamento. Solo a titolo di esempio ricordo: 1) i mutui ipotecari o addirittura fondiari utilizzati dall’imprenditore, per le cui mani non c’è reale passaggio di denaro, per la copertura di altre esposizioni verso la stessa banca mutuante o, nei casi più sofisticati, verso banca dello stesso gruppo cui appartiene quella mutuante; 2) le aperture di fido di importo pari allo scoperto in atto, così da escludere la natura solutoria delle successive rimesse; 3) le aperture di distinti rapporti, per le operazioni attive e passive, in modo da poter ricorrere alla compensazione. Come può un curatore distinguere quando queste operazioni rappresentano un tentativo di aggirare il rischio di una successiva revocatoria e quando corrispondono ad una non fraudolenta funzione economica e giuridica?

MECHELLI
Come curatore ho vissuto casi nei quali la banca ricorreva alla utilizzazione della clausola contrattuale, prevista nello schema ABI, della possibilità del recesso verbale dal fido da parte della banca. Il sistema adottato era questo: la banca, in base al principio del recesso verbale imposto ai clienti, quando ha notizia della irreparabile crisi del cliente gli revoca o riduce verbalmente il fido, invitandolo al rientro promettendogli però - sempre a voce - di ripristinare il fido a rientro avvenuto e poi, una volta spremuto il limone, invia la comunicazione scritta del recesso tentando con ciò di prendere due piccioni con una fava; cioè da una parte fa apparire i versamenti non come “atti solutori di debiti liquidi ed esigibili” come in realtà sono, ma come ricostituzione della provvista, dall’altra, dimostra che al momento delle rimesse la banca non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore. Un caso quasi analogo è stato esaminato dalla Corte di cassazione - sent. n. 1727/1995 - la quale ha individuato, in un versamento a fronte dell’intero saldo passivo del conto bancario, che pur non eccedeva il limite di fido concesso, la natura solutoria poiché il conto era stato chiuso nel secondo giorno successivo all’operazione.
Altra manifestazione sospetta si ha quando “il fido rincorre lo scoperto” secondo l’arguta definizione che si legge nella sentenza della Suprema Corte n. 2744/1994: la banca si accorge dello stato di insolvenza del cliente, ma non revoca il fido, anzi lo aumenta oltre lo scoperto per etichettare le rimesse ricevute nell’anno anteriore al fallimento, non come rientri da sconfinamenti dal fido (e quindi solutori), ma come atti “con finalità di ricostituzione della provvista”.

PERSICO
In questa materia, secondo me, le problematiche maggiori sorgono con riguardo al caso in cui la banca nel concedere il “nuovo credito” proceda all’erogazione di un mutuo fondiario (recte finanziamento fondiario arg. ex art. 38, 1° comma, T.U. D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385). Infatti, in questo caso l’art. 39, 4° comma T.U., dispone che non sono soggette a revocatoria fallimentare le ipoteche iscritte dieci giorni prima della dichiarazione di fallimento e che comunque non sono soggetti a revocatoria i pagamenti effettuati dal debitore a fronte di crediti fondiari. Per evitare che le banche possano usufruire, nel caso in esame, della posizione privilegiata prima descritta, possiamo ricordare alcune decisioni edite che possono così riassumersi: “Trascorso il periodo di consolidamento di dieci giorni la revocatoria può avvenire solo se: a) il negozio di mutuo fondiario garantito da ipoteca è simulato; b) il negozio di mutuo fondiario è nullo perché illecito (1343 cod. civ.), in frode alla legge (1344 cod. civ.) o perché stipulato per motivo illecito (art. 1345 cod. civ.)”.
Tali dicta vanno però integrati dalle ulteriori avvertenze:
a) si trovano edite alcune sentenze che negano possa applicarsi la normativa riguardante la simulazione atteso che le parti, banca e sovvenuto, vogliono il contratto di mutuo e vogliono l’iscrizione della garanzia ipotecaria. Né può parlarsi di simulazione relativa dal momento che il credito fondiario non può essere inquadrato nella figura del mutuo di scopo e pertanto non incide sulla validità del contratto di credito fondiario il fatto che esso sia destinato a scopi diversi da quello del miglioramento fondiario;
b) perplessità sorgono anche con riguardo alle altre accennate cause di nullità:
- la declaratoria di nullità ex artt. 1343 e 1344 cod. civ. del contratto di “mutuo” e della relativa iscrizione ipotecaria non può essere dedotta dal fatto che esso viola l’art. 67 della L.F. perché tale norma non è imperativa. Essa infatti non è posta a tutela di un interesse generale ma solo a tutela dell’interesse dei creditori; è inoltre assistita da sanzione imperfetta (l’inefficacia relativa e non la nullità); prevede infine l’eccezione di cui al terzo comma, mentre le norme imperative non possono avere alcuna eccezione, rivolgendosi a tutti i cittadini, nessuno escluso.
  Non può infine dedursi la nullità di tali contratti ex art. 1345 cod. civ. dal momento che il motivo illecito (ammesso che vi sia e sia comune ad entrambe le parti ed emerga quindi dall’insidioso terreno probatorio) in realtà non è mai il solo a determinare le parti al perseguimento dell’attività illecita.

GHIA
A proposito del mutuo fondiario devo ricordare che mentre il mutuo edilizio è considerato dalla dottrina e giurisprudenza quale “mutuo di scopo”, finanziariamente orientato ad una precisa destinazione, con sanzione di nullità in caso contrario, non può dirsi altrettanto per il mutuo fondiario e per le assai ricorrenti anticipazioni fondiarie, che non hanno vincoli di destinazione; pertanto, il relativo utilizzo, al fine di estinguere esposizioni più costose a breve e trasformarle in debiti a medio o lungo termine, in un contesto asettico, dal punto di vista dell’art. 5 L.F., non rileva autonomamente, ai fini della revocatoria fallimentare (Cass. 1.9.1995 n. 9219 - Sez. I, in B.B.T.C. parte II - 1997, pag. 251).
Assai vicino alle questioni che stiamo trattando è il tema del mezzo “normale” di pagamento, che per il Codice di commercio doveva essere eseguito con “danaro o con effetti”; l’attuale interpretazione normativa, arricchita di quanto la moderna prassi degli scambi commerciali propone , ci consente di considerare “anormali” in genere, i mandati a vendere ed all’incasso. La cessione del credito pro solvendo, spesso considerata revocabile ex 2° comma, art. 67 L.F., meriterebbe un excursus a parte; infatti, se la stessa cessione è inquadrabile come mezzo attuativo di un contratto di factoring, in presenza dei relativi presupposti oggettivi e soggettivi, specie dopo la legge n. 52/1991, non potrebbe essere soggetta a revocatoria autonoma ed indipendente dalla revocatoria del contratto di factoring. Infatti, contro il pagamento del corrispettivo, il cedente perde la titolarità del credito oggetto della cessione che è contestualmente trasferita al cessionario.
Un accenno, infine, alla compensazione è d’obbligo. La revocatoria non è esercitabile: a) se la compensazione è legale (art. 1243 cod. civ.); b) se rientra in uno dei casi di cui all’art. 56 L.F. In entrambi i casi, infatti, non si vede per quale motivo non debba essere lecito, prima del fallimento, ciò che è lecito dopo il fallimento. Qualora, invece, la compensazione avvenga in osservanza di un pactum de compensando, la giurisprudenza la ritiene revocabile, in quanto “anormale”. Sarà però opportuno distinguere caso per caso, soprattutto sotto il profilo soggettivo: infatti, qualora il pactum de compensando avvenga tra banche (o con una banca), esso deve ritenersi normale, e pertanto non revocabile ai sensi del 1° comma dell’art. 67 L.F. ma, eventualmente ai sensi del 2° comma.

DI AMATO
Dopo gli arresti della S.C. in ordine alla revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario soltanto se hanno natura solutoria, l’attenzione di dottrina e giurisprudenza si è spostata sulla individuazione dei saldi di conto rilevanti ai fini di una eventuale revocatoria. Si parla, al riguardo, di saldo per valuta, saldo contabile e saldo disponibile. Come si deve regolare secondo voi un curatore?

APICE
La giurisprudenza più recente sul tema della revocatoria delle rimesse in conto corrente (Cass. 2744/94, 9591/94, 12/96, 462/1998) afferma che, per valutare la natura solutoria della rimessa - e quindi la sua revocabilità ex art. 67, 2° comma L.F. - in relazione alla “copertura” del conto, bisogna far riferimento al solo saldo disponibile (e cioè al saldo di effettiva esecuzione di incassi ed erogazioni) e non invece al saldo contabile o a quello per valuta. La strada imboccata mi sembra quella giusta. Infatti, i riferimenti al saldo per valuta e al saldo contabile non possono essere appaganti, in quanto il primo segna semplicemente la variazione quantitativa del conto nel rapporto tra banca e correntista e il secondo corrisponde al saldo risultante dalla mera registrazione cronologica delle singole operazioni: né l’uno né l’altro può essere utilizzabile ai fini della revocatoria, giacché nessuno dei due dati indica, di per sé, ciò che è necessario accertare per valutare la fondatezza della revocatoria, e cioè quale sia stata - nei singoli momenti coincidenti con le rimesse - la soglia di disponibilità esistente: infatti il carattere reintegrativo o solutorio di ogni rimessa (revocabile nel secondo caso, non revocabile nel primo caso) dipenderà dall’esistenza o inesistenza della disponibilità. Ora, poiché la modificazione effettiva della disponibilità - che spinge il correntista a reintegrare la provvista o ad azzerare lo scoperto - avviene in un momento di regola non coincidente né con la valuta (che è un criterio di riposizionamento delle partite di dare e avere in vista della maturazione degli interessi) né con la mera registrazione cronologica delle operazioni, ecco perché l’ultimo indirizzo della Corte di legittimità sembra essere quello più soddisfacente. A questo punto, posto che va esclusa sicuramente una disponibilità retroattiva (che sarebbe un nonsenso) o una perdita di disponibilità retroattiva (calcolata dalla banca nel saldo per valuta nel caso di emissione di assegni con data antecedente rispetto all’incasso), il problema si riduce a stabilire quali operazioni implicano una disponibilità immediata e quali una disponibilità futura. Il discorso, sulla scorta delle citate sentenze della Cassazione, si può così concludere:
 nel caso di operazioni di addebito (emissione di assegni, bonifici a favore di terzi, prelievi addebiti per competenze) bisogna aver riguardo, per la perdita di disponibilità, al giorno della contabilizzazione;
  nel caso di operazioni di accredito bisogna distinguere: a) operazioni che determinano un immediato incremento della disponibilità, quali versamenti in contanti, assegni circolari emessi dalla stessa banca, assegni bancari emessi da altro correntista della stessa dipendenza della banca: in tali casi bisognerà tenere conto dell’incremento a partire dallo stesso giorno dell’operazione; b) operazioni che determinano un incremento futuro della disponibilità, quali versamenti di altri titoli, diversi da quelli sopra indicati, che danno luogo a un effettivo incremento della disponibilità solo al momento dell’incasso: in tali casi, sia pure solo presuntivamente e fino a prova contraria offerta dalla banca, si potrà tenere conto dell’incremento a partire dal giorno risultante dal criterio applicato dalla banca per la valuta.
Per concludere, quando un curatore esamina un estratto complessivo di un conto affidato del fallito, deve: a) fermare l’attenzione sulle operazioni dell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; b) estrapolare le operazioni di accredito e posticiparne l’aumento di disponibilità al giorno della valuta; c) valutare se negli intervalli il conto risultava “scoperto”; d) controllare se in detti intervalli si sono verificate operazioni attive e, in caso positivo, chiedere al giudice delegato la nomina di un esperto in tecnica bancaria per l’esatta individuazione degli importi da ritenere solutori.

MECHELLI
Sul piano pratico, comunque, permangono oggettive difficoltà tecniche di calcolo, specie in funzione della quantità delle operazioni intervenute. Ma si tratta di difficoltà superabili facendo ricorso agli strumenti informatici, quali un “foglio elettronico”, o nel caso di una rilevante quantità di operazioni e di conti, un programma di data base. Facilmente intuibile è il ruolo decisivo che l’informatica ha nella rigorosa determinazione del saldo disponibile e del controllo dei risultati. Potrebbe anzi essere un’iniziativa dell’Associazione dei Curatori presso il Tribunale di Roma, partendo appunto dal tema della revocatoria bancaria, illustrare e divulgare le potenzialità dell’informatica nella razionalizzazione e nell’accelerazione della prassi fallimentare in generale.

DI AMATO
Altra questione dibattuta, in materia di rimesse su conto corrente, è quella se l’esistenza ed il limite di una apertura di credito debbano risultare necessariamente dal relativo documento contrattuale ovvero se, tenuto conto che si tratta di un contratto a forma libera, possano risultare anche in altro modo e addirittura per facta concludentia, come nel caso del rapporto che abbia avuto scoperti non occasionali e di valore omogeneo nel tempo. 

MECHELLI
Non credo possibile invocare in questa materia volontà contrattuali manifestate per fatti concludenti. Al riguardo mi pare chiaro l’insegnamento della Corte di cassazione. Mi riferisco alla sentenza n. 4718/1995, secondo cui, cito testualmente, “... a) la modifica del contratto di apertura di credito come quella di ogni altro contratto, non può essere disposta unilateralmente da una delle parti, a meno che ciò non sia stato espressamente convenuto dalle parti; ... d) quando uno dei contraenti è una persona giuridica, ai fini della conclusione del contratto non è sufficiente che l’organo competente abbia stabilito di accettare la proposta e neppure che tale intento si sia concretato in una formale delibera, ma è invece necessario che la volontà negoziale, così formatasi all’interno dell’ente, si manifesti all’esterno nei confronti dell’altro contraente (Cass. 21 febbraio 1987, n. 1894); e) pertanto, la delibera di concessione di fido da parte di una banca e la stessa annotazione degli estremi dell’affidamento nel libro dei fidi non sono idonee, per il loro carattere “interno”, a costituire un rapporto negoziale (Cass. 5 dicembre 1992, n. 12947), né presuppongono necessariamente la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito o di un suo patto modificativo, potendo, specie in presenza di una situazione debitoria del correntista, essere invece espressione di una iniziativa unilaterale della banca diretta ad assicurare al conto una “copertura”, al fine di porre le “rimesse” al riparo da eventuali iniziative revocatorie...”.

PERSICO
Per uscire indenne dalla revocatoria la banca dovrà dimostrare l’esistenza di un contratto di concessione di credito, l’ammontare delle somme messe a disposizione del correntista poi fallito e, da ultimo, la natura ripristinatoria delle rimesse effettuate dal correntista.
Per quel che concerne i due profili, prova del contratto di concessione del credito e ammontare dello stesso, sappiamo che il libro dei fidi, le delibere interne della banca e, più in generale, i libri contabili, vidimati nelle forme di legge e regolarmente tenuti, che hanno pieno valore probatorio anche e soprattutto se le circostanze che si vogliono inferire da questi documenti siano state contestate dalla curatela. Tali circostanze potevano in passato essere dimostrate dalla banca per mezzo di testimoni. Sennonché, il D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, impone ora la forma vincolata della scrittura privata per tutti i contratti bancari a pena di nullità ex art. 117, 1° e 3° comma. Le conseguenze della nuova disciplina, com’è intuibile, non sono di poco momento, ed incidono sugli aspetti esaminati. Infatti ai sensi del 2° comma dell’art. 2725 cod. civ. la prova testimoniale dell’esistenza del contratto potrà essere ammessa solo nel caso di perdita incolpevole del documento. A conclusioni analoghe a quelle precedentemente esaminate dovrà al contrario pervenirsi nel caso in cui il C.I.C.R., nell’esercizio del potere demandatogli dal 2° comma dell’art. 117 T.U. legge bancaria, disponga che, per motivate ragioni tecniche, i contratti di concessione di credito potranno essere stipulati senza l’osservanza di forme particolari. Ma ove l’esercizio di tale potere fosse adottato sistematicamente con riguardo ad ogni contratto, francamente si svilirebbe il senso e la portata della riforma attuata nel 1993, volta anche a rendere più trasparenti le operazioni bancarie.

DI AMATO
La banca, alla costante ricerca di garanzie, riceve sovente pagamenti da parte di terzi. Una ipotesi particolare, che fa discutere, è rappresentata dalle rimesse di terzi. Secondo la giurisprudenza della S.C. l’inclusione nel conto, anche se la rimessa proviene da un terzo, determina una riduzione del debito nell’ambito dell’unitario rapporto di conto corrente, così da escludere la possibilità di una compensazione tra la somma riscossa ed il saldo negativo del conto. Non vi sembra che la soluzione penalizzi gli istituti di credito assai più di quanto avvenga nel caso di pagamenti di terzi attuati con forme normali?

APICE
Il pagamento di un terzo, nell’ottica delle revocatorie fallimentari, è un problema di vaste dimensioni e di controversa soluzione. Un criterio condiviso da molta dottrina e molta giurisprudenza è il seguente: non è soggetto a revocatoria il pagamento effettuato al creditore del fallito da parte di un terzo, quando risulta che il terzo ha pagato di tasca propria, senza depauperare in alcun modo il patrimonio del fallito. Il problema si complica quando il terzo effettua l’adempimento mediante un versamento sul conto intestato al debitore (poi fallito), giacché da un punto di vista formale la rimessa del terzo sul conto del fallito si risolve in un pagamento fatto dallo stesso fallito - e perciò in linea di principio revocabile -, in quanto il versamento in primo luogo incrementa il patrimonio del debitore e in secondo luogo lo depaupera attraverso il meccanismo della compensazione insito nel contratto di conto corrente. La giurisprudenza ha optato per questa impostazione (Cass. 4 luglio 1985 n. 4022), osservando tra l’altro che qui il pagamento del terzo - anche quando si tratta di un fideiussore - si trasforma in “valori fruibili da parte del correntista”, di guisa che, nel momento in cui la rimessa assume valenza solutoria nei confronti del credito della banca, non è più un “pagamento di terzo”, ma decurta lo stesso patrimonio del debitore (v. in particolare Trib. Napoli 29.5.1985, in Fallimento, 1986, 759). Questa giurisprudenza mi trova piuttosto dissenziente, perché privilegia il dato formale del passaggio del pagamento sul conto del debitore, laddove la finalità della revocatoria è certamente quella di colpire di inefficacia gli atti realmente depauperatori.

GHIA
Sono d’accordo. Se il terzo non paga con danaro del fallito, il pagamento non è revocabile; se il fideiussore ha pagato e poi ha esercitato il diritto di rivalsa nei confronti del debitore, poi fallito, non è revocabile il pagamento del terzo, ma il pagamento del debitore al terzo effettuato in sede di rivalsa. In ogni caso, va verificato che nella singola fattispecie la banca abbia effettivamente sottratto alla disponibilità dei creditori una parte di attivo, utilizzando a tal fine la propria “conoscenza funzionale”. Tali presupposti sovente restano sovrastati dalle suggestioni di facili “moltiplicazioni dei pani e dei pesci” che talune revocatorie, nell’immaginario concorsuale, evocano.



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