g•i•u•r•i•s•p•r•u•d•e•n•z•a
d•i • l•e•g•i•t•t•i•m•i•t•à
Note e dibattiti 1998
di Albert Costantini
 
Corte di cassazione - Sez. I Civile - sent. 11 marzo 1997, n. 2196 - Pres. Rocchi - Est. Losavio - P.M. Arena (concl. conf.) - curatore revocato (avv. G. Faraone) c. Fallimento n. ... (avv. A. Caiafa) - Conferma decreto Roma 7 ottobre 1993.
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FALLIMENTO - CURATORE - LIQUIDAZIONE COMPENSO - REVOCA DELL’INCARICO DOPO LA ESECUTIVITA’ DELLO STATO PASSIVO - PERCENTUALE SUL PASSIVO ACCERTATO - DIMINUZIONE PROPORZIONALE ALL’ENTITA’ DELL’OPERA PRESTATA - LEGITTIMITA’
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FALLIMENTO - CURATORE - LIQUIDAZIONE COMPENSO - RICORSO IN CASSAZIONE EX ART. 111, COMMA 2, COST. - SINDACATO - LIMITI..
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Quando la revoca dell’incarico ad un curatore fallimentare intervenga dopo il decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, il compenso spettante allo stesso curatore, calcolato sulla base dei parametri indicati nel d.m. n. 570/92, deve essere ridotto in proporzione dell’opera prestata rispetto all’ideale compimento della procedura, sia con riguardo alla voce di compenso dovuta sull’attivo realizzato che su quella dovuta sul passivo accertato, essendo irrilevante che al momento della revoca l’accertamento del passivo sia stato interamente compiuto dal curatore revocato. [1]

Il decreto del tribunale fallimentare di liquidazione del compenso al curatore è impugnabile in Cassazione solo per violazione di legge ex art. 111, comma 2, Costituzione, rientrando nel vizio di violazione di legge solo la carenza assoluta di motivazione e non la semplice asserita inadeguatezza della stessa motivazione rispetto all’oggetto dell’atto impugnato. [2]

(omissis)
1. Con il primo motivo dell’impugnazione il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 2 del decreto ministeriale 28 luglio 1992, n. 570 e lamenta che la liquidazione del compenso sia stata attuata al di sotto dei minimi normativi, giacché il compenso integrativo calcolato sul passivo accertato non è suscettibile di attribuzione proporzionale e deve essere in caso riconosciuto nella sua integralità, pur se dovesse condividersi l’apprezzamento del Tribunale quanto all’entità dell’opera prestata nella specie dal curatore (pari circa alla “metà dell’attività complessiva”).
Il motivo non è fondato. Afferma il ricorrente - in sostanza - che il “compenso supplementare” proporzionale all’ammontare del passivo del fallimento costituirebbe il corrispettivo specifico delle operazioni di accertamento del passivo che si svolgono nella fase iniziale della procedura, sicché quando il curatore sia cessato dalle funzioni dopo la verificazione dello stato passivo - divenuto esecutivo a norma dell’art. 97 L.F. - il compenso stesso previsto dall’art. 1, 2° comma, D.M. 570/1992 dovrebbe essere liquidato a suo favore nella misura integrale, quale corrispettivo dell’opera effettivamente prestata come dispone l’art. 2 del medesimo decreto. Ma è agevole obbiettare che i riferimenti all’ammontare dell’attivo realizzato e del passivo del fallimento costituiscono parametri sintetici di valutazione della “importanza del fallimento” - della sua entità economica - e insieme integrano la convenzionale misura aritmetica di liquidazione e perciò il compenso determinato in rapporto a tali valori quantitativi non rappresenta il corrispettivo delle specifiche operazioni della liquidazione dell’attivo e della verificazione del passivo (nelle quali non si esauriscono i compiti del curatore), ma è la retribuzione dell’intera opera prestata nello svolgimento della complessiva procedura fino alla ripartizione finale e alla cessazione del fallimento, in relazione alla ipotesi ordinaria - considerata nell’art. 1 del D.M. - del curatore che ha condotto l’intera procedura. Con la conseguenza che, dovendo il Tribunale determinare il compenso del curatore cessato a norma dell’art. 2 D.M. 570/1992, non può dirsi vincolato alla integrale liquidazione “supplementare” rapportata al dato quantitativo del passivo oggetto della verificazione, ma è tenuto a valutare la (parziale) opera prestata secondo i criteri indicati nell’art. 1, stesso decreto, considerando che le misure proporzionali alla entità di attivo e passivo sono indicate in rapporto all’opera completa del curatore, e ad esse apporterà la riduzione idonea a commisurare il compenso all’opera in concreto prestata dal curatore anticipatamente cessato dalle funzioni.
Il Tribunale di Roma si è correttamente attenuto a tale criterio e dunque non 
sussiste la violazione del disposto dell’art. 1, 2° comma, in relazione all’art. 2 del D.M. 570/1992 denunciata con il primo motivo del ricorso, che deve perciò essere rigettato. 
Con lo stesso motivo il ricorrente lamenta anche “omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia” con testuale riferimento all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. e rimprovera al Tribunale di non aver reso esplicito il calcolo analitico fondato sui minimi della tariffa e di non aver dato compiuta ragione del suo apprezzamento. Una tale censura è diretta all’esercizio in concreto del potere discrezionale rimesso al Tribunale e anticipa quindi gli argomenti svolti con i successivi motivi e in particolare con il terzo, e congiuntamente al terzo motivo - appunto - sarà esaminato.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 1° e 2° comma; 2, 1° comma; 4, 1° comma, del D.M. 28 luglio 1992, n. 570 concernente i compensi spettanti ai curatori fallimentari; nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Il ricorrente precisa che la violazione delle indicate norme di diritto è prospettata “in relazione a mancata, esatta e logica individuazione dell’entità dell’opera prestata” e che sono con tale motivo denunciate “violazione e falsa applicazione dei principi di disponibilità e valutazione delle prove acquisite al processo” e infine “omessa valutazione circa un punto decisivo della controversia”. In relazione alla censura così formulata si deve innanzitutto rilevare che il decreto impugnato è soggetto al ricorso in cassazione a norma dell’art. 111, 2° comma, Costituzione, che è rimedio straordinario dato “per violazione di legge” e non può estensivamente applicarsi a tutte le ipotesi dell’art. 360 cod. proc. civ., rimanendo pertanto esclusa dall’area del controllo di stretta legalità la valutazione della adeguatezza della motivazione. Oltre alla violazione di legge sostanziale e processuale il ricorso fondato sulla garanzia costituzionale può pertanto denunciare esclusivamente la carenza assoluta di motivazione come violazione dello stesso art. 111, 1° comma, Costituzione, che pone la motivazione quale requisito formale di “tutti i provvedimenti giurisdizionali”.
Ebbene, il primo motivo del ricorso qui in esame critica il decreto impugnato sotto il profilo della asserita inadeguatezza della motivazione e dunque esorbita dai limiti del controllo di legalità posti dall’art. 111, 2° comma, Costituzione. Ne può dirsi che il provvedimento qui denunciato contenga una motivazione meramente apparente o intrinsecamente contradditoria, ovvero radicalmente inidonea a rivelare le ragioni della decisione, giacché al contrario esso esplicita i criteri di valutazione adottati con riferimento all’entità di attivo realizzato e di passivo accertato, all’opera prestata, alle ragioni della revoca dell’incarico (il venir meno del rapporto fiduciario tra giudice delegato e curatore). Il ricorrente in particolare contesta il fondamento del giudizio - espresso dal Tribunale - sulla entità dell’“opera prestata” pari a “circa la metà dell’attività complessiva” e, invocando un raffronto con le risultanze documentali degli atti della procedura, denuncia esplicitamente al riguardo un’erronea valutazione delle prove e dunque chiede la verifica di un asserito vizio che non emerge dal provvedimento in sé e che in nessun modo può essere ricondotto a carenza assoluta di motivazione.
Il secondo motivo, per le ragioni fin qui esposte, deve ritenersi inammissibile.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione delle medesime disposizioni di legge “con specifico riguardo alla necessità dell’espressa menzione dei motivi che, nella liquidazione dei compensi stessi, inducono alla scelta tra i minimi e i massimi della tariffa”. Il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia determinato il compenso applicando la misura proporzionale di poco superiore ai minimi di cui all’art. 4, 1° e 2° comma, D.M. 570/1992, “senza tuttavia addurre motivazione alcuna circa la scelta operata”.
Anche tale censura, rileva la Corte, in realtà pone un tema di valutazione della sufficienza della motivazione del provvedimento a norma dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. - espressamente richiamato dal ricorrente nel titolo del motivo - e dunque esorbita dall’area del controllo di stretta legalità definita dall’art. 111, 2° comma, Costituzione. Basti osservare che la scelta dei valori minimi di cui alla tariffa è dal Tribunale espressamente ancorata alle ragioni della revoca dell’incarico e cioé al comportamento del curatore (gli evocati fatti che, a giudizio del Tribunale, hanno fatto venir meno il rapporto fiduciario che deve susssistere tra il g.d. e il curatore), sicché, se può discutersi della sufficienza e della adeguatezza della motivazione così espressa, non può invece affermarsi che la stessa motivazione sul punto sia del tutto carente così da integrare il difetto del requisito formale posto dall’art. 111, primo comma, Costituzione.
Come il secondo, anche il terzo motivo del ricorso è dunque inammissibile. (omissis)

Liquidazione del compenso al curatore revocato e sindacato della Corte di cassazione.
(di Alberto Costantini)
[1-2.] Con la sentenza in commento la sezione prima civile della Corte di cassazione rigetta e, nei limiti indicati, dichiara inammissibile il ricorso proposto da un curatore revocato dal tribunale prima del compimento della procedura per il sopravvenire di fatti che avevano incrinato il rapporto fiduciario con il giudice delegato.
Il curatore lamentava, in estrema sintesi, che il compenso liquidatogli fosse stato rapportato a circa la metà di quello dovuto per l’intera procedura, non perchè contestasse quanto ritenuto dal tribunale e cioè che l’opera da lui prestata rappresentava nella fattispecie più o meno la metà di quella necessaria per il compimento della procedura, ma perchè il tribunale, applicando l’indicata riduzione di circa il 50% sull’intero compenso, non avrebbe tenuto conto che lo stesso curatore aveva comunque esaurito completamente la fase di verifica del passivo, per cui la riduzione non si sarebbe dovuta applicare alla voce di compenso calcolata, appunto, sul passivo accertato.
Denuncia infine che il tribunale non avrebbe adeguatamente valutato le risultanze documentali dell’opera dallo stesso curatore effettivamente prestata, giungendo così ad un provvedimento di liquidazione non sufficientemente motivato, anche con riguardo alla mancata esplicitazione delle ragioni dell’adozione di importi di poco superiori ai minimi tariffari.
La Cassazione respinge la prima doglianza e dichiara inammissibile la seconda.
1] L’articolazione della tariffa dei compensi dei curatori fallimentari in due voci distinte, la prima rapportata all’attivo realizzato e la seconda al passivo accertato non fa venir meno, secondo la Cassazione, l’intrinseca unitarietà del compenso, rappresentando le due voci solo elementi sintetici di valutazione dell’importanza del fallimento e non il corrispettivo delle prestazioni di liquidazione dell’attivo e di verifica del passivo. Lo dimostra il fatto, a tacer d’altro, che l’attività del curatore non si esaurisce certo nei due momenti della liquidazione del’attivo e della verifica del passivo, ma comporta altre e altrettanto complesse operazioni.
Unico criterio legittimo per la liquidazione del compenso in caso di cessazione anticipata dalle funzioni di curatore è dunque il raffronto tra ciò che si sarebbe dovuto fare per portare a compimento una certa ben precisa procedura e ciò che, invece, è stato complessivamente e concretamente fatto dal curatore revocato.
Siffatta valutazione comparativa appare in definitiva giustificata dalla necesità di rispettare il generalissimo canone di uguaglianza sostanziale posto dall’art. 3 Cost., di cui, con riguardo alla liquidazione del compenso del commissario giudiziale, ha fatto recentemente applicazione la sentenza del 26 maggio 1997, n. 4670 delle Sezioni Unite civili[1], con la quale è stata affermata la legittimità della disapplicazione parziale dell’art. 5 del citato d.m. 570/92, nella parte in cui, distinguendo la fase anteriore alla omologazione da quella successiva, determina di fatto a favore del commissario giudiziale il raddoppio del compenso rispetto a quello fissato per il curatore; ciò perché la disposizione regolamentare confligge appunto con il principio generale di eguaglianza. Facendo applicazione dello stesso principio Cass. Sez. I, 29 gennaio 1993, n. 1169 ha riconosciuto al curatore cessato dalle funzioni prima che fosse realizzato alcun attivo, un compenso calcolato anche sull’attivo realizzato dal curatore che gli era succeduto, riconoscendo comunque l’utilità dell’attività svolta dal primo curatore rispetto ai fini della procedura fallimentare nella sua unitarietà e complessità.[2]
2] La impugnabilità dei decreti camerali di liquidazione del compenso del Curatore con il ricorso straordinario in Cassazione previsto dall’art. 111 Cost. può dirsi ormai ius receptum,[3] in virtù dei caratteri, propri dei detti provvedimenti, della decisorietà e della definitività.
A proposito del connotato della definitività, deve tuttavia ricordarsi l’orientamento, espresso da molti tribunali fallimentari, favorevole all’applicazione ai decreti di liquidazione dei compensi a commissari giudiziali e curatori dell’art. 742 cod. proc. civ., in virtù del quale i detti decreti sono ritenuti modificabili dallo stesso tribunale fallimentare fino alla conclusione della procedura concorsuale.[4]
Pare di poter dire, tuttavia, che la modificabilità da parte dello stesso tribunale emittente dei decreti di liquidazione dei compensi agli organi delle procedure concorsuali rimanga subordinata alla sopravvenienza di fatti nuovi o, comunque, non attuali al momento della liquidazione.
In mancanza di tali sopravvenienze, non pare possa parlarsi di modificabilità dei decreti di liquidazione del compenso, pena la smentita della giurisprudenza della Corte di cassazione che ne ammette la ricorribilità ex art. 111 Cost. [5]
Per quanto attiene ai limiti di tale impugnativa, la sentenza in commento restringe in maniera netta l’ambito di operatività dell’art. 111 Cost., limitandolo ai casi di violazione di legge intrinsecamente propri dell’atto impugnato ed escludendone invece l’invocabilità con riferimento alle altre ipotesi di cui all’art. 360 cod. proc. civ..
La pronuncia si iscrive nell’indirizzo con cui la Corte di cassazione cerca di restituire se stessa all’istituzionale funzione nomofilattica, attraverso un sensibile ridimensionamento del campo di applicazione dell’art. 111, comma 2, Cost., sia sotto il profilo del tipo di censure deducibili sia sotto quello del novero dei provvedimenti impugnabili.[6]
In quest’ottica l’espressione “violazione di legge” viene interpretata in senso restrittivo, così da farvi rientrare solo la “violazione della legge sostanziale e processuale e la carenza assoluta di motivazione come violazione dello stesso art. 111, primo comma, Cost. che pone la motivazione quale requisito formale di tutti i provvedimenti giurisdizionali”. Sia detto per inciso che, quanto al provvedimento di liquidazione del compenso, assumendo lo stesso forma di provvedimento camerale, l’obbligo della motivazione può farsi discendere anche dall’art. 737 cod. proc. civ..
Sempre in tema di liquidazione del compenso e, a ben vedere, in linea con l’orientamento restrittivo di cui la sentenza in commento è espressione, va segnalata Cass., sez. I, 25 settembre 1993, n. 9721 in Giust. Civ. 1994, I, 994, che ha negato l’ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento del tribunale fallimentare di liquidazione (o di diniego) di un acconto sul compenso, dovendosi escludere sia l’esistenza di un diritto soggettivo in capo al curatore alla liquidazione di acconti, sia il carattere decisorio di tale provvedimento, sempre modificabile prima della chiusura della procedura concorsuale ed insuscettibile pertanto di assumere efficacia di cosa giudicata.
Speculare rispetto alla tendenza a restringere lo spazio di utilizzabilità del ricorso ex art. 111 Cost. avverso i decreti di liquidazione del compenso agli organi della procedura fallimentare è l’enfatizzazione del margine di discrezionalità di cui i tribunali godono nella determinazione del compenso, che può spingersi addirittura alla disapplicazione del d.m. 570/92, laddove esso condurrebbe a provvedimenti in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale posto dall’art. 3 Cost.[7]
 

Corte di cassazione - Sez. I Civile - sent. 6 settembre 1997, n. 8662 - Pres. Sensale - Est. De Musis - P.M. Giacalone (concl. conf.) - Banca Commerciale Italiana s.p.a. (avvocati Ciccotti e Fioretta) c. Fallimento Hidromac Spa (avvocati Romanelli e Jorio). Conferma App. Torino 23/5/1995.

FALLIMENTO - REVOCATORIA FALLIMENTARE - SCONTO DI PORTAFOGLIO COMMERCIALE - RIMESSE DEL FALLITO - NATURA SOLUTORIA - SUSSISTENZA. (artt. 1842, 1843, 1852 cod. civ.; art. 67 L.F.)

Dal contratto di apertura di credito quale disciplinato dal cod. civ. discendono l’obbligo della banca di tenere la somma, predeterminata nell’ammontare e per il periodo stabilito, a disposizione del cliente e il diritto di questi di disporre della stessa, in più volte e secondo le forme di uso se non è stato convenuto altrimenti, come previsto dall’art. 1843, ovvero in qualsiasi momento, salva l’osservanza del termine di preavviso eventualmente pattuito, se l’apertura è regolata in conto corrente, a norma dell’art. 1852. Non concretano diversamente l’apertura di credito i contratti i quali, pur prevedendo la concessione di un fido al cliente, non determinano con immediatezza l’insorgenza dell’obbligazione della banca e del corrispondente diritto del cliente, ma prevedono che il fido sarà completamente operante al momento del compimento di determinati atti e del realizzarsi di determinate condizioni o circostanze e solo nell’ammontare corrispondente alla concreta operazione correlata a quell’atto, a quella condizione o a quella circostanza. Consegue che, relativamente a tali contratti diversi dall’apertura di credito, i versamenti effettuati dal cliente sul conto corrente non possono essere considerati atti di natura ripristinatoria della provvista correlata al fido e, come tali sono revocabili ai sensi dell’art. 67, 2° comma, L.F. (nel caso di specie la banca aveva concesso alla società successivamente fallita due fidi, uno per sconto di portafoglio commerciale e uno per anticipazioni su divisa export) (Massima ufficiale)[1].

(omissis)
L’art. 1842 cod. civ. dispone che “l’apertura di credito bancario è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato”: dal contratto quindi discendono l’obbligo della banca di tenere la somma (predeterminata nell’ammontare e per il periodo stabilito) a disposizione del cliente e il (correlato) diritto di costui di disporre della stessa (in più volte e secondo le forme di uso se non è stato convenuto altrimenti - art. 1843 cod. civ. - oppure in qualsiasi momento, salvo l’osservanza del termine di preavviso eventualmente pattuito, se l’apertura è regolata in conto corrente - art. 1852 cod. civ. -).
Il connotato fondamentale dell’apertura di credito come disciplinata dal cod. civ. pertanto è che gli effetti che essa produce, e che sono stati più sopra individuati, derivano direttamente e immediatamente dal contratto, nel quale trovano la loro unica fonte non solo nel senso - ovvio - che la stipulazione è sufficiente senza che occorra che - pur sempre rimanendo il contratto la fonte degli stessi - debbano verificarsi ulteriori circostanze o realizzarsi ulteriori condizioni.
Consegue che non concretano l’apertura di credito prevista dal cod. civ., e come più sopra individuata, i contratti i quali, pur prevedendo la concessione di fido, non determinano con carattere di immediatezza la insorgenza dell’obbligazione della banca e del corrispondente diritto di credito del cliente.
Non si vuol cioè prendere posizione sul se anche a detti altri contratti competa la qualifica di apertura di credito, con tale espressione intendendosi che (anche) con essi la banca concede fido al cliente né sul se a tali contratti si applichi la stessa disciplina che il cod. civ. prevede per l’apertura di credito da esso regolata; si vuol solo affermare che da detti contratti non scaturiscono quegli effetti tipici del contratto disciplinato dal cod. civ., effetti sulla base dei quali occorre risolvere la questione che l’attuale controversia pone, e cioè se, al fine della revocatoria fallimentare, costituiscono o no atti solutori i versamenti effettuati dalla società sul conto corrente bancario. Ora negli altri contratti l’obbligo della banca e il diritto del cliente non sorgono nella loro concretezza con la stipulazione del contratto ma abbisognano, per la loro insorgenza, della mediazione di una circostanza esterna al contratto, ulteriore e futura rispetto a questo.
In breve anche in detti contratti, al pari che nella tipica apertura di credito, la banca concede un fido al cliente, ma in essi si conviene non - come invece si pattuisce nella tipica apertura di credito - che con carattere di immediatezza la banca ponga una somma determinata a disposizione del cliente e costui abbia il diritto di credito di tale somma, ma che il fido sarà concretamente operante con la produzione di detti effetti non immediatamente ma: a) solo al momento del compimento di determinati atti o del realizzarsi di determinate condizioni o circostanze e; b) solo nell’ammontare corrispondente (e nel limite dell’intero ammontare del fido) alla concreta operazione correlata a quell’atto, a quella condizione o a quella circostanza.
In detti contratti quindi sia l’obbligo della banca che il diritto di credito del cliente sorgono condizionati sia nella loro esistenza che nel loro concreto ammontare: prima del verificarsi della condizione, pertanto, il cliente non può disporre di alcuna somma e ciò comporta che un eventuale versamento, da parte del cliente stesso, di somme sul suo conto corrente intrattenuto presso la banca, non potrebbe concretare atto di natura ripristinatoria della provvista correlata al fido.
Nel senso indicato peraltro è l’orientamento di questa Corte (da ultimo: Cass., n. 1083/1997). 
Il motivo è pertanto infondato perché con esso si pone la questione astratta della equiparabilità di tutte le concessioni del fido - o se più piace di tutte le aperture di credito - all’apertura di credito quale specificamente prevista dal cod. civ., e cioè con gli effetti dei quali si è detto, e non anche la questione “concreta” che i fidi specifici che la Corte d’appello ha ritenuto concessi avessero prodotto i (medesimi) ripetuti effetti per determinate somme corrispondenti a determinate operazioni poste in essere.
(omissis)

[1] Concessione di fido senza apertura di credito e natura della rimessa
La sentenza in commento segue il recente orientamento della Suprema Corte che differenzia, ai fini dell’azione revocatoria fallimentare, il contratto bancario di apertura di credito, di cui all’art. 1842 e ss. cod. civ., rispetto alle differenti operazioni bancarie relative alla concessione di credito, variamente denominate, in senso giuridicamente atecnico, come “sconto di portafoglio commerciale”; “anticipazioni su divisa export”; “anticipi fronte portafoglio appunti commerciali”; “castelletto di sconto”; ecc. [1]
In particolare, nella sentenza in commento la Suprema Corte, confermando il decisum della Corte di Appello di Torino, ha premesso:
  che, ai sensi dell’art. 1842 cod.civ., l’apertura di credito bancario è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato;
  che da tale contratto discendono, quindi, l’obbligo della banca di tenere la somma (predeterminata nell’ammontare e per il periodo stabilito) a disposizione del cliente ed il (correlato) diritto di costui a disporre della stessa durante tutto il periodo di disponibilità;
  che, pertanto, il connotato fondamentale di tale contratto è che gli effetti che esso produce, sopra indicati, derivano direttamente e immediatamente dal contratto stesso, nel quale trovano la loro unica e sufficiente fonte; non solo nel senso ovvio - che la stipulazione del contratto determina la loro insorgenza, ma anche nel senso che detta stipulazione del contratto è sufficiente a tale prodursi di effetti, senza che occorra che debbano verificarsi ulteriori circostanze o realizzarsi ulteriori condizioni;
  che diversamente, non concretano un’apertura di credito, così come disciplinata dal cod.civ., quelle operazioni bancarie che, pur prevedendo la concessione di un affidamento, non determinano con carattere di immediatezza l’insorgenza dell’obbligazione della banca di porre a disposizione del cliente una somma determinata ed il corrispondente diritto del cliente ad utilizzare tale provvista (eventualmente ripristinandola) per tutta la durata del contratto;
  che la banca aveva concesso alla società poi fallita due fidi, uno per sconto di portafoglio commerciale ed uno per anticipazioni su divisa export, entrambi entro un limite predeterminato;
  che occorreva, pertanto, stabilire se dalle operazioni bancarie in oggetto scaturissero o meno quegli effetti tipici del contratto di apertura di credito di cui agli artt. 1842 e ss. cod.civ., sulla base dei quali risolvere la questione concreta, relativa al fatto se le rimesse via via effettuate dalla società costituissero o meno atti solutori.
Sulla base di tali premesse la Corte, quindi, ha osservato:
a] che nei contratti in oggetto era stato pattuito che il fido sarebbe stato concretamente operante solo al compimento di determinati atti o al realizzarsi di determinate condizioni o circostanze e solo nell’ammontare corrispondente alla concreta operazione correlata a quell’atto, a quella condizione o a quella circostanza;
b] che in detti contratti, a differenza che nell’apertura di credito, sia l’obbligo della banca che il diritto di credito del cliente erano sorti condizionati, sia nella loro esistenza che nel loro concreto ammontare;
c] che, non potendo il cliente disporre di alcuna somma prima del verificarsi della condizione, i versamenti effettuati dallo stesso sul proprio conto corrente non concretavano atti di natura ripristinatoria della provvista correlata al fido;
d] che, parimenti, al verificarsi del termine di scadenza del credito scontato, la banca diventava creditrice della somma anticipata, con il suo conseguente diritto a trattenere immediatamente le somme versate dal terzo debitore o dal cliente.
La questione della natura giuridica dei contratti bancari e dell’ambito di applicazione della disciplina normativa per essi dettata è stata particolarmente dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, proprio per quanto riguarda il rapporto di omogeneità od autonomia sussistente tra il contratto di apertura di credito ed il contratto c.d. di “castelletto di sconto”.[2] 
Di contro, nella sentenza in esame, la Suprema Corte non ha preso (volutamente) posizione sul se competa anche al contratto di sconto di portafoglio clienti la qualifica di contratto di apertura di credito né sul se a tale contratto si applichi la relativa disciplina codicistica (artt. 1842 e seg.)[3], limitandosi ad affermare che da tali contratti di sconto (e/o anticipazione su divisa export) non scaturiscono gli effetti tipici del contratto di apertura di credito. Effetti sulla base dei quali è stato ritenuto possibile risolvere la questione concreta se, al fine della revocatoria fallimentare, i versamenti in conto corrente effettuati dal cliente affidato costituiscano o meno atti solutori.
Tale ristretta e rigorosa osservazione della Suprema Corte sembra cogliere nel segno.
Le rimesse effettuate dal cliente sul conto corrente d’appoggio, a fronte ed in costanza di un contratto di apertura di credito (qualora non siano destinate a coprire uno scoperto rispetto al limite di fido concesso), sono, infatti, ritenute dalla giurisprudenza ripristinatorie del credito messo dalla banca a disposizione del cliente.[4]
Questo, come intende la sentenza in esame, proprio in virtù degli effetti tipici del contratto di apertura di credito, cioè a fronte della messa a disposizione a favore del cliente, con carattere di immediatezza dalla stipulazione del contratto, di un credito
predeterminato nell’ammontare e per un periodo stabilito; eventualmente anche con la facoltà per il cliente di ripristinare la provvista.
Di contro, gli effetti scaturenti dalle operazioni bancarie quali il castelletto di sconto o, come nel caso de quo, lo sconto di portafoglio commerciale, a prescindere dalla loro natura giuridica e dalla loro autonomia o collegamento rispetto ad altri contratti bancari, non sembrano possedere i medesimi caratteri.
Da tali operazioni, infatti, non deriva l’immediata messa a disposizione del cliente di una risorsa finanziaria, poiché questa è differita alle singole operazioni di sconto di effetti o di altri titoli scontabili ed a condizione che questi presentino i requisiti richiesti dalla banca.[5]
Ne consegue che le rimesse effettuate dal cliente prima del verificarsi di tali condizioni (come nel caso della sentenza in esame), non destinate a ripristinare alcun credito, non ancora sussistente, non possono ritenersi ripristinatorie.
Ad eguale conclusione si giunge, inoltre, anche per il pagamento da parte del terzo del titolo scontato o per le eventuali rimesse in conto corrente effettuate dal cliente a seguito del ritorno insoluto del titolo scontato.
Tali rimesse, infatti, devono ritenersi solutorie del diritto di credito sorto a favore della banca e nei confronti del cliente (credito immediatamente inserito dalla banca quale posta passiva del conto corrente d’appoggio) a seguito del mancato adempimento del creditore ceduto.
In altri termini, mentre con un’apertura di credito per una determinata somma, quale contratto consensuale con effetti obbligatori immediati, il cliente assume subito il diritto di utilizzare la provvista, in tutto o in parte (ed, eventualmente, ripristinandola) e non ha obbligo di restituzione se non alla scadenza, con la concessione di un castelletto di sconto di portafoglio commerciale di pari importo, il cliente non assume alcun diritto di credito, ma il ben diverso diritto di ottenere dalla banca singoli negozi di sconto di titoli, entro l’impegno complessivo predeterminato (il c.d. castelletto). Singoli negozi di sconto la cui accettazione da parte della banca rappresenta una condizione per il sorgere del credito a favore del cliente e rispetto ai quali la scadenza del titolo, con il conseguente diritto della banca all’incasso, rappresenta, di contro, il termine ultimo di restituzione per ciascuna somma accreditata.
La ricostruzione sopra esaminata trova sostanziale conferma sia in dottrina che in giurisprudenza, pur in presenza di differenti interpretazioni dei contratti in esame. Infatti, la dottrina ha ritenuto che:
1] il castelletto di sconto consiste in un contratto normativo la cui funzione è soltanto quella di fissare il contenuto dei contratti di sconto che verranno stipulati con il cliente e di determinare il limite massimo di fido oltre il quale la banca stessa non prenderà in considerazione altre proposte di sconto;[6]
2] il castelletto di sconto non ha alcun contenuto obbligatorio, consistendo esclusivamente nel limite massimo di credito che un istituto bancario ritiene di poter accordare ad uno stesso cliente;[7]
3] il castelletto di sconto è il contratto - atipico ed incoercibile ex art. 2932 per mancanza di individuazione delle cambiali oggetto dei futuri sconti - con il quale la banca si impegna a scontare, per un determinato massimo ammontare, le c.d. cambiali bancabili che il cliente le presenterà, prefissando il tasso di sconto.[8]
A fonte di tale palese diversità dell’obbligazione assunta dalla banca con un contratto di sconto rispetto ad un’apertura di credito, dopo una datata giurisprudenza di merito che affermò che la causa dello sconto resterebbe assorbita nella più ampia fattispecie costituita dall’apertura di credito in conto corrente, con una sostanziale identità tra i due contratti,[9] l’interpretazione più recente, anche della Suprema Corte, tra cui, anche se limitatamente agli effetti del contratto, può includersi la sentenza in esame, ha costantemente affermato che tra il contratto di apertura di credito ed il contratto di sconto vi è una diversità causale che comporta l’autonomia dei due negozi a prescindere dal loro possibile analogo collegamento ad un contratto di conto corrente.[10]
Ai fini della revocatoria fallimentare, quindi, secondo tale corretta interpretazione, qualora su di un medesimo conto corrente la banca ed il cliente intrattengano più rapporti di credito, quali, ad esempio, di apertura di credito e di sconto portafoglio commerciale, per la revocabilità delle singole rimesse (quindi, per la valutazione della natura ripristinatoria o solutoria delle stesse) si deve avere riguardo a quale dei singoli rapporti debbano essere riferite, non potendo essere le stesse considerate quali atti di un unico rapporto di apertura di credito genericamente considerato.