I•L • P•R•O•C•E•S•S•O 
 A 
B•E•A•T•R•I•C•E • C•E•N•C•I [1]
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di Maurizio Calo` e 
Liliana Chiettini
 
Il ritratto che sto per darvi è spaventoso, di mia iniziativa non avrei mai rappresentato un tale carattere; ma confesserò che questo racconto mi è stato domandato dai miei compagni di viaggio”. È così che Henri Beyle, che si firmava Stendhal, in “Le cronache italiane”, si esprimeva nei riguardi di Francesco Cenci, assassinato il 9 settembre 1598 sotto gli occhi della figlia e di sua moglie, mandanti del delitto. Stendhal scoprì i manoscritti italiani nel 1833 e da questi tradurrà le sue Cronache “perché servano alle persone intelligenti come utile complemento alla storia d’Italia nei secoli 16° e 17° e della società da cui sono nati Raffaello e Michelangelo”. Incuriosito dal dramma di Beatrice Cenci, Stendhal ebbe occasione di visionare gli atti del processo, stupendosi, leggendo quei fogli dove tutto è scritto in latino salvo le risposte, di non trovare quasi mai la spiegazione dei fatti. Ma a Roma nel 1599 i fatti erano conosciuti da tutti. Allora andò a cercarli, i fatti, in un racconto contemporaneo, scritto in “italiano di Roma” il 14 settembre 1599.
 
Della morte di Giacomo e Beatrice Cenci e di Lucrezia Petroni Cenci, loro matrigna, giustiziati per delitto di parricidio sabato scorso 11 settembre 1599 sotto il regno del nostro Santo Padre, Papa Clemente VIII Aldobrandini.[2] La mala vita che ha sempre condotto Francesco Cenci lo ha condotto finalmente a perire. Egli ha trascinato a morte precoce i suoi figli giovani forti e coraggiosi e sua figlia Beatrice. Sebbene mandata al supplizio appena sedicenne [3] , passava già per una delle più belle fanciulle dello stato pontificio, tanto adorata e rispettata da tutti coloro che la conoscevano, quanto era odiato ed esecrato suo padre. A quest’uomo, detentore di un’immensa fortuna ereditata dal padre che era stato tesoriere dello Stato Pontificio [4] , erano inizialmente attribuiti crimini la cui qualità il mondo facilmente perdona (amori singolari condotti a termine con mezzi ancor più singolari). Sotto Paolo III, quando ancora si poteva parlare con una certa scioltezza, si diceva che Francesco Cenci era soprattutto avido di avvenimenti stravaganti che potessero procurargli sensazioni nuove e conturbanti [5] . La frase “quando ancora si poteva parlare” si riferisce al fatto che a Roma la sorte ed il modo d’essere dei romani cambiavano secondo il carattere del papa regnante. Così, sotto Gregorio XIII Boncompagni, tutto era permesso; sotto Sisto V, invece, si giustiziavano disgraziati che avevano confessato il loro crimine magari dieci anni prima all’allora Cardinale di Montalto, divenuto poi Papa Sisto V. 
Francesco Cenci fu imprigionato tre volte per i suoi amori infami, ma se la cavò sempre corrompendo le persone che via via erano in auge presso i dodici papi sotto i quali visse. Tentarono, i tre figli maschi, di far condannare a morte il padre che disonorava la loro casa, sollecitando un’udienza papale, ma Clemente VIII, nonostante ne avesse una gran voglia, scacciò i figli snaturati. 
Aumentò così l’odio del padre che, una volta uscito di prigione, divenne ancora più dispotico, picchiando selvaggiamente le due povere figlie femmine. La maggiore sfuggì alle sue violenze andando in sposa, per ordine del Papa impietosito, a Carlo Gabrielli della nobile famiglia di Gubbio. 
Beatrice, rimasta sola, fu così sequestrata in uno degli appartamenti della fortezza di Petrella [6] - e costretta a subire non solo le percosse, ma anche le attenzioni sessuali del padre che abusava di lei in presenza della moglie Lucrezia Petroni. La fanciulla tentò allora di inviare una supplica al Papa molto particolareggiata, che però non arrivò mai a destinazione. Questo documento, che parlava anche a nome di Lucrezia, sarebbe stato molto utile per dimostrare in seguito la legittima difesa, ma non fu mai rinvenuto. Fu allora che Beatrice, persa ogni speranza, decise di far sopprimere il padre dopo aver ottenuto il consenso del fratello maggiore Giacomo, convinto alla complicità dal celebre Monsignor Guerra, innamorato di lei.  
Il piano: si scelsero due vassalli di Francesco Cenci che lo odiavano particolarmente, Marzio Catalano e Olimpio Calvetti, che dovevano riunire una dozzina di banditi napoletani pronti a rapire Francesco quando si fosse recato da Roma al castello della Petrella; chiesto il riscatto, che non si sarebbe potuto pagare in tempo utile, avrebbero ucciso l’ostaggio. Ma, partito Francesco per Petrella, la spia avvertì in ritardo i banditi in agguato che, attesa invano la vittima, se ne andarono a rubare altrove. 
Si convinsero allora i due vassalli, dietro pagamento di un’ingente somma, a uccidere di loro propria mano Francesco nel sonno, simulando poi un incidente fatale. 
Il 9 settembre 1598, in serata, madre e figlia propinarono l’oppio a Francesco Cenci che cadde in un sonno profondo. Verso mezzanotte Beatrice in persona introdusse nella fortezza Marzio e Olimpio e li condusse con Lucrezia nella stanza del padre che dormiva profondamente. Uno di essi aveva un grosso chiodo che posò verticalmente su un occhio del vecchio; l’altro con un martello gli fece penetrare il chiodo in testa; un secondo chiodo gli fu conficcato nella gola. Il corpo si dibattè invano. 
A cose fatte Marzio e Olimpio furono pagati e le due donne, tolti i chiodi dal cadavere e avviluppato il corpo in un lenzuolo, lo trascinarono attraverso una lunga fila di camere fino ad una galleria che dava su un piccolo giardino abbandonato. Di là gettarono il corpo su un grande sambuco sperando che si sarebbe supposto, una volta trovato il cadavere, che il piede gli fosse scivolato. 
Le cose avvennero come avevano previsto, ma la giovane Beatrice mancava della prudenza necessaria nella vita e, prima di tornare a Roma, consegnò alla lavandaia il lenzuolo macchiato di sangue dicendole di aver sofferto durante la notte di una forte emorragia. 
Per un po’ tutto andò liscio, ma a Napoli il giudice principale ebbe dei dubbi e inviò alla fortezza un commissario generale per indagare. Nulla di sospetto fu trovato fino a quando si interrogò la lavandaia che testimoniò di aver ricevuto da Beatrice due lenzuola insanguinate; fu chiesto alla donna anche un parere tecnico sulla natura delle macchie e questo parere fece scattare per tutti i Cenci un preciso sospetto che avrebbe portato molti mesi dopo all’ordine di arresto; inspiegabilmente gli indagati, sebbene avvertiti del pericolo, non si misero in salvo scappando. 
Monsignor Guerra, avvertito dei fatti, mandò due sicari per uccidere Marzio e Olimpio, ma solo Olimpio fu ucciso a Terni. Marzio fu arrestato e confessò tutto. Scattò allora l’ordine di arresto: la vedova Lucrezia e Giacomo e Bernardo (i soli figli maschi superstiti di Francesco Cenci), furono condotti alla prigione di Corte Savella; Beatrice agli arresti nel palazzo di suo padre. Le due donne furono quindi messe a confronto con Marzio ma costui, entusiasmato dalla bellezza ed eloquenza di Beatrice mentre rispondeva al giudice, ritrattò ogni cosa e nonostante la tortura non confessò più nulla preferendo morire sotto i tormenti. Tutti furono allora condotti a Castel Sant’Angelo dove passarono alcuni mesi tranquillamente. 
Tutto sembrava volgere ad una favorevole conclusione, quando fu arrestato il sicario di Olimpio e costui confessò ogni cosa. Monsignor Guerra ebbe un mandato di comparizione che preludeva sicuramente all’arresto. Con un abile stratagemma riuscì a scappare dalla città mettendosi miracolosamente in salvo. Ma vale la pena di dire come. 
Bisogna sapere che Monsignor Guerra era un bell’uomo, molto alto, dal viso di un candore perfetto, barba bionda e biondi capelli e soprattutto troppo noto per sperare di scappare da una città ben presidiata alle porte. Corruppe allora un mercante di carbone, ne prese i vestiti, si fece rasare testa e barba, si tinse il viso di nero, comprò due asini e si mise a percorrere le vie di Roma e a vendere il carbone zoppicando. Assunse un’aria grossolana e idiota, girando ovunque col suo carbone e la bocca piena di pane e cipolla, mentre centinaia di sbirri lo cercavano dentro e fuori le mura. Finalmente, quando la sua figura fu ben conosciuta dalla maggior parte degli sbirri, osò uscire dalla città spingendo davanti a sé i due asini carichi di carbone. 
Il fatto fece ricadere i sospetti sui Cenci che furono ricondotti alla prigione Savella. Messi alla tortura, i due fratelli Giacomo ed il più giovane Bernardo confessarono subito ogni cosa ed anche Lucrezia non poté sopportare la tortura della corda [7] e confessò. Beatrice, nonostante le minacce del Giudice Moscati, incaricato di interrogarla, nonostante i tormenti della corda, non cedette. Il giudice, colpito, fece una relazione completa al Papa il quale, visti e studiati gli atti del processo, temendo che il Giudice Moscati, vinto dalla bellezza della giovinetta, fosse stato troppo “tenero” negli interrogatori, gli tolse la direzione del processo affidandolo ad altro giudice più severo. Questi, effettivamente, ebbe il coraggio di tormentare senza pietà Beatrice ad torturam capillorum (cioè appendendola per i capelli). Mentre era appesa, il giudice introdusse nella stanza Giacomo e Lucrezia che la convinsero finalmente a confessare. 
Il giorno dopo tutta Roma fremette di sdegno: il Papa, lette le confessioni di tutti, ordinò di mandarli a morte. 
A loro difesa si mossero allora principi e cardinali. Fu concessa una proroga di 25 giorni per presentare una difesa. 
Immediatamente si mobilitarono i migliori avvocati di Roma che convennero tutti insieme davanti al Pontefice allo scadere del 25° giorno. Parlò per primo l’avvocato Nicolò de Angelis, ma dopo due righe fu interrotto dal Papa: “Dunque a Roma si trovano non solo uomini che uccidono il loro padre, ma anche avvocati per difenderli!”. 
Solo l’avvocato Prospero Farinacci osò ribattere: “Noi non siamo qui per difendere il delitto ma per provare, se lo possiamo, che uno o molti di costoro sono innocenti!”. Poté parlare per tre ore. 
Alla fine il Papa raccolse le scritture e congedò tutti. Passò la notte a leggere le difese degli avvocati, facendosi aiutare dal Cardinale di San Marcello e sembrò commosso al punto da far sperare per la vita dei rei confessi. 
Per salvare i maschi, gli avvocati attribuivano tutta la colpa a Beatrice; e poiché era stato dimostrato più volte nel processo che aveva subito violenza dal padre, speravano che il delitto sarebbe stato perdonato per legittima difesa. Una volta salvata la vita dell’autore principale del delitto, anche i due fratelli, persuasi dalla sorella, non avrebbero potuto essere mandati a morte. 
Ognuno a Roma si sentiva difensore di Beatrice. Se era stato provato che ella aveva amato Monsignor Guerra senza trasgredire le regole della virtù, la si voleva forse punire perché aveva usato il diritto di difendersi? Dopo una vita tanto dolorosa e piena di sventura, non aveva diritto, una creatura così provata e non ancora sedicenne, a qualche giorno meno spaventoso? Si cominciò a sperare. 
Non avrebbe forse il Pontefice perdonato a chi aveva respinto la forza con la forza, non in verità al primo delitto di violenza, ma quando si tentava di commetterne altri? Roma era in ansia. 
Ma giunse al Papa la notizia che la Marchesa di Santa Croce era stata pugnalata a morte dal figlio Paolo perché non voleva impegnarsi a lasciarlo erede di tutti i suoi beni, e che il matricida era riuscito a fuggire mettendosi in salvo. 
L’efferato delitto fece allora tornare alla memoria il fratricidio dei Massimi avvenuto qualche tempo prima. 
Desolato dalla frequenza degli assassinii commessi su parenti prossimi, Clemente VIII non credette che gli fosse lecito il perdono e venerdì 10 settembre 1599, alle ore 4 di sera, fece chiamare il Governatore di Roma Ferrante [8] Taverna e gli disse: “Noi vi rimettiamo la causa dei Cenci affinché la giustizia sia fatta a vostra cura e senza indugio”. 
Tutta la notte e la mattina seguenti, mentre si lavorava sulla piazza del Ponte Sant’Angelo ai preparativi per l’esecuzione, si tentò in tutti i modi di intercedere per la salvezza almeno di Bernardo che, appena quindicenne, era totalmente estraneo al delitto e affinché le donne fossero messe a morte in prigione e non su un infame patibolo. 
Ci provarono i principali cardinali; ci provò il nobile Sforza. Il delitto Santa Croce era un vile delitto per denaro, il delitto Cenci un delitto d’onore ! 
Solo il grande giureconsulto Farinacci ebbe l’audacia di giungere fino al Papa e, a forza di insistere, riuscì a strappare la grazia per Bernardo Cenci. Quando il Papa pronunciò la grande parola, erano le 4 del mattino di sabato 11 settembre 1599, ma alla salvezza si accompagnava l’ordine di assistere al supplizio finale dei suoi congiunti. 
La notizia della sentenza di morte arrivò alle due prigioni (Corte Savella dove erano Beatrice e Lucrezia - Tordinona dove erano Giacomo e Bernardo) solo la mattina alle 6 di sabato 11 settembre, stesso giorno fissato per l’esecuzione. 
Prima disperata per la sorpresa, poi calma e dignitosa come Lucrezia, Beatrice chiamò un notaio per fare testamento. Lasciò 300.000 franchi alle religiose delle Stimmate di S. Francesco e ordinò che il suo corpo fosse portato a S. Pietro in Montorio; Lucrezia lasciò 500.000 franchi alla chiesa di San Giorgio [9] e l’ordine di portarvi il suo corpo. Alle 8 si confessarono; ricusando i loro ricchi vestiti, ordinarono, per affrontare il patibolo, due abiti come quelli delle monache: senza ornamenti sul petto e sulle spalle, stirati a pieghe e con maniche larghissime; di cotone nero quello di Lucrezia, di taffettà turchino con una grossa corda per cintura quello di Beatrice.  
Poi andarono alla messa e ricevettero la comunione. 
Alla stessa ora la Compagnia della Misericordia portava il suo grande crocefisso alle porte della prigione di Tordinona. Primo uscì Giacomo che baciò il crocefisso e salì sulla carretta del carnefice, quindi Bernardo. La folla era enorme e tutti guardavano i due fratelli, quando arrivò l’ufficiale fiscale con la grazia per Bernardo e l’ordine di accompagnare i parenti fino al patibolo. 
La processione si incamminò lenta per Piazza Navona verso la prigione di Corte Savella [10]. Arrivata alla porta della prigione, le due donne uscirono, baciarono il crocefisso e s’incamminarono lente l’una dietro l’altra, le mani libere ma le braccia legate al corpo in modo da poter sorreggere il crocefisso. 
Lucrezia, sopra la veste nera aveva un manto di taffettà nero e pantofole di velluto nero senza tacco; Beatrice un manto turchino, un grande drappo d’argento sulle spalle, una sottana di panno violetto e pantofole di velluto bianco. 
Intanto il povero Giacomo era “tenagliato” [11] sulla sua carretta dove era stato fatto salire anche Bernardo [12]. La processione poté a gran fatica attraversare la parte inferiore della Piazza di Ponte Sant’Angelo tanto era grande il numero di carrozze e la folla di popolo. Sulla piazza era stato innalzato un grande palco con un ceppo e una mannaia. 
Le donne furono condotte nella cappella preparata ai piedi del patibolo e Bernardo direttamente sul palco, dove cadde svenuto al secondo passo. Fattolo rinvenire, fu fatto sedere direttamente dirimpetto alla mannaia. 
Prima fu Lucrezia Petroni. Mani dietro il dorso, salì faticosamente (era molto pingue) e a piedi nudi; quando le fu tolto il manto si vergognò molto, si guardò le spalle e il petto scoperti, guardò la mannaia, e chiese al primo boia, Alessandro, quello che avrebbe dovuto fare. Egli le disse di mettersi a cavallo sulla panca del ceppo ma questo movimento le parve disonorevole e ci mise molto a farlo. Quindi la mannaia calò e la sua testa fu mostrata al popolo. 
Mentre ci si preparava per la seconda esecuzione, un palco crollò e ci furono parecchi morti. 
Fu la volta di Beatrice. 
Lasciate le pantofole in fondo alla scala e salita sul palco, passò rapidamente la gamba sulla panca, posò il collo sotto la mannaia e si aggiustò perfettamente da sé per non essere toccata dal carnefice. Ma il colpo non arrivava. 
Il Papa, in preghiera a Monte Cavallo e in pensiero per la salvezza dell’anima di Beatrice, sapendo che ella si riteneva ingiustamente condannata, aspettava il segnale (un colpo di cannone da Castel Sant’Angelo) che lo avvertiva del momento esatto per poterle impartire l’assoluzione papale maggiore in articulo mortis. Di qui la pausa in quel crudele momento. 
Finalmente cadde la mannaia, il corpo ebbe un gran sussulto e il povero Bernardo, sempre seduto sul palco, svenne di nuovo. 
Toccò infine a Giacomo che fu “mazzolato” [13]. Quindi il suo corpo venne squartato ed i suoi resti appesi ai quattro lati del palco; subito Bernardo fu ricondotto in carcere: aveva la febbre alta e bisognò cavargli il sangue. Tutto era finito ed erano le 2 meno un quarto. Le due donne furono messe ciascuna in una bara disposta a qualche passo dal patibolo, dopo la statua di S. Paolo che è la prima a destra di Ponte Sant’Angelo. Restarono là fino alle 4 e un quarto. Intorno a ciascuna bara bruciavano quattro candele di cera bianca. Poi, con i resti di Giacomo, furono portate al palazzo del Console di Firenze che si era offerto di ospitare le spoglie. 
Alle 9 e un quarto di sera il corpo di Beatrice fu condotto a S. Pietro in Montorio e sepolto davanti all’altar maggiore. Lucrezia Petroni fu portata alla chiesa di San Giorgio[14]. Quel giorno al supplizio aveva assistito una folla innumerevole e il sole era così forte che molti svennero, moltissimi presero le febbri, altri furono soffocati e schiacciati dai cavalli. Il numero dei morti fu notevole. 
Ieri che fu martedì 14 settembre 1599 Bernardo Cenci fu liberato dalla prigione obbligandosi a pagare entro un anno 400.000 franchi alla Santissima Trinità di Ponte Sisto. 
Francesco Cenci era un uomo alto, di quasi 5 piedi e 4 pollici d’altezza, molto ben costruito quantunque magro, occhi grandi ed espressivi, ma la palpebra superiore gli ricadeva troppo sulla pupilla; naso sporgente e troppo grande, labbra sottili e sorriso affabile. 
La signora Lucrezia Petroni Cenci, cinquantenne, era di statura piccola, molto abbondante di forme, ma ancora piacente, naso minuto, occhi morati, capelli castani. 
Beatrice Cenci, sedicenne [15], piccola di statura, rotondetta; piccola bocca; fossette alle gote, capelli biondi e ricciuti. Giacomo Cenci, ventiseienne, era breve di statura; viso bianco, barba e capelli neri. Bernardo Cenci somigliava alla sorella e poiché portava come lei i capelli lunghi, quando apparve sul palco fu scambiato per lei. 
Il celebre avvocato Prospero Farinacci, che con la sua pertinacia salvò la vita al giovane Bernardo Cenci, pubblicò in lingua latina le difese che pronunciò davanti a Clemente VIII, testimoniandoci così il modo di pensare dell’anno 1599. Anni dopo, alla difesa dei Cenci aggiunse questa nota: “Omnes fuerunt ultimo supplicio effecti excepto Bernardo qui ad triremes cum bonorum confiscatione condemnatus fuit ac etiam ad interessendum aliorum morti prout non interfuit”. (“Tutti furono condannati a morte eccetto Bernardo che fu condannato alle galere con la confisca dei beni e anche affinché ci fosse differenza con la morte degli altri in quanto non partecipò”).
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Si ringrazia il Rettore dell’Ordine dei Frati Minori che regge la Chiesa di San Pietro  
in Montorio per averci consentito di estrarre dall’archivio copia dei documenti attestanti  
la data di nascita di Beatrice Cenci ed il luogo della sua sepoltura all’interno della Chiesa.
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[1] Estratto da “Le cronache italiane” di Stendhal. L’autore spiega di riprodurre le vicende di Beatrice Cenci traendole da un manoscritto contemporaneo alla tragedia. Nell’asserito manoscritto, tuttavia, si rinvengono numerosi elementi difformi rispetto ad altre cronache cosicché si è parlato, da parte degli studiosi, di interpolazioni letterarie. I fatti storici, però, sono sostanzialmente identici in tutte le fonti.
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[2] Ippolito Aldobrandini nacque a Fano nel 1536 da un ricco banchiere ed avviato alla vita religiosa dal Car-dinale Farnese.
Completati gli studi in legge a Padova, Perugia e Bologna, divenne cardinale a sua volta nel 1585 conquistando grande reputazione come legato in Polonia nel 1588. La sua carriera ecclesiastica subì un forte impulso sotto Papa Sisto V e venne eletto a sua volta papa il 30.01.1592. Sotto il suo pontificato avvenne anche l’esecuzione di Giordano Bruno il 17 febbraio 1600.
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[3] Dal certificato di nascita reperito negli archivi della Chiesa di S. Pietro in Montorio, risulta che Beatrice subì l’esecuzione a ventidue anni, essendo nata nel 1577.
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[4] A chi si reca a Castel Sant’Angelo è ancora possibile visitare, al vertice della costruzione, la stanza del tesoro pontificio con al centro l’enorme forziere di legno rinforzato da bande di ferro e assicurato da un’imponente serratura.
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[5] Ad esempio può citarsi la seguente voce di spesa in un suo libro contabile: “Per le avventure e peripezie di Toscanella, 3.500 piastre (circa 60.000 franchi nel 1837) e non fu caro”.
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[6] Si tratta di Petrella del Salto, tra Rieti e Terni, all’epoca sotto il Regno di Napoli, da non confondere con Petrella Tifernina presso Campobasso.
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[7] La tortura della corda consisteva nell’issare il corpo dalle braccia legate dietro la schiena così da slogarle.
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[8] Secondo altre fonti Ferdinando e non Ferrante.
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[9] Secondo altre fonti, si tratta della chiesa di S. Gregorio.
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[10] L’itinerario fu il seguente. Lasciata la prigione di Tordinona, il corteo entrò in Via dell’Orso, quindi girò in Via del Giglio, attraversò P.za Sant’Apollinare, P.za Navona, P.za S. Pantaleo ed arrivò davanti al Palazzo della Cancelleria. Di qui, per Via (Madonna) di Monserrato, dove alla prigione Corte Savella raccolse le due donne, la processione proseguì per Via de’ Banchi Vecchi e l’attuale L.go Tassoni verso P.za Ponte Sant’Angelo in cui era stato issato il patibolo. Secondo altre cronache il corteo fu funestato da molti incidenti.
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[11] La tortura consisteva nello strappare con tenaglie roventi brani di carne dal torace e dalla schiena.
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[12] Secondo altre fonti Bernardo si trovava su una seconda carretta col viso coperto.
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[13] La morte per mazzolatura avveniva a seguito di un gran colpo di maglio che sfondava il cranio.
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