Giurisprudenza di legittimità
con nota di A. Pietrolucci
Corte di Cass. - Sez. I Civile - sentenza 10 novembre 1998 n. 11297 - Pres. Vessia - Est. Berruti - Consortile Tusculum srl (Avv. G. Mascioli e P. Lelli) c. Fall. O.C.M. Valma s.p.a. (Avv. R. Mariano e F. Pensato)

FALLIMENTO - AMMISSIONE AL PASSIVO - COMPETENZA DEL TRIBUNALE CHE HA DICHIARATO IL FALLIMENTO - DOMANDA RICONVENZIONALE DINANZI A GIUDICE DIVERSO - CONNESSIONE - RITO SPECIALE E RITO ORDINARIO - SIMULTANEUS PROCESSUS - POSSIBILITA'

In tema di competenza per connessione l'art. 40, 3° comma, cod. proc. civ. - introdotto dall'art. 5 della legge 26 novembre 1990 n. 353 - si riferisce alle regole di modificazione della competenza cosiddetta per subordinazione, mentre non richiama i casi che dipendono dal cumulo soggettivo (art. 33 cod. proc. civ.). Pertanto, la diversità del rito costituisce ostacolo al simultaneus processus soltanto in queste ultime ipotesi, mentre negli altri casi (artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ.) la regola generale che la norma ha ribadito è quella del simultaneus processus anche nel caso di diversità del rito (fattispecie in cui la S. C., in riforma della sentenza impugnata, ha affermato la competenza del Tribunale fallimentare sia in ordine alla domanda proposta dall'imprenditore prima della dichiarazione di fallimento e proseguita dal curatore di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale, sia per la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto). [1]

La società Consortile Tusculum s.r.l. proponeva istanza di regolamento di competenza nei confronti del fallimento S.p.A. OCM Valma, avverso la sentenza non definitiva del Tribunale di Roma del 9 dicembre 1996. Tale sentenza, pronunciando sulla domanda di Valma, proseguita dal curatore dell'intervenuto fallimento di questa, nei confronti di Tusculum diretta alla condanna della convenuta al risarcimento dei danni da inadempimento ad un contratto di appalto, e sulla speculare domanda riconvenzionale della convenuta, aveva dichiarato improponibile la domanda riconvenzionale per esservi la competenza del tribunale di Lecco che aveva dichiarato il fallimento di Valma e disposto la prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda della Tusculum. Secondo il tribunale infatti, il nuovo testo dell'art. 40 cod. proc. civ., quanto alle cause connesse, rende applicabili le regole di attrazione che sanciscono la prevalenza del rito ordinario rispetto a quelli speciali, con la conseguenza della impossibilità di far trasmigrare una domanda avanzata al giudice ordinario verso il giudice delegato ed il tribunale fallimentare.
L'istante Tusculum, sul presupposto del contenuto di pronuncia sulla competenza oltre che sul rito della sentenza in questione, denuncia la violazione dell'art. 40 cod. proc. civ. il quale, a suo avviso, non ha rilevanza sul processo fallimentare cosicché nella specie dovrebbe essere mantenuto l'indirizzo che la sentenza impugnata ritiene superato dalla novella, secondo il quale la preferenza del simultaneus processus non trova ostacolo nel rito. 
Chiede dunque che la Corte di Cassazione dichiari la competenza del tribunale fallimentare in ordine ad entrambe le domande, e non solo in ordine alla riconvenzionale.
Il Fallimento si è costituito e nel controricorso ha chiesto in via principale che venga confermata la sentenza impugnata. Il Fallimento ha depositato memoria.
Il Procuratore generale presso al Corte Suprema ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
Osserva la Corte che non può essere condiviso l'assunto della sentenza impugnata in tema di effetti della introduzione del terzo comma dell'Ar. 40 cod. proc. civ. ad opera della L. n. 353 del 1990. Come la dottrina ha avuto modo di notare la novella ha affrontato esplicitamente il problema della connessione tra cause soggette al rito ordinario e cause soggette al rito del lavoro, che nel codice del 1942 erano gli unici riti, distinguendolo da quello nel quale la connessione riguarda un diverso rito speciale. La formulazione adottata espressamente riguarda le regole di modificazione della competenza cosiddetta per subordinazione, mentre non richiama i casi che dipendono dal cumulo soggettivo. Perciò soltanto in queste ipotesi la diversità di rito costituisce ostacolo all'applicazione del simultaneus processus.
In tutti gli altri casi, ovvero nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35, 36 cod. proc. civ., la regola che la legge ha ribadito è quella, appunto, del simultaneus processus.
Occorre peraltro, a riprova della esattezza di tale lettura della norma, rilevare che la novella non ha immutato in alcun modo riguardo ai presupposti del predetto simultaneus processus, ovvero alle regole di modifica della competenza già note. Essa infatti ha regolato nuovamente il modo nel quale tale processo deve svolgersi. E ciò è particolarmente significativo in ordine al problema che ne occupa, perché non avendo come si è detto, il legislatore cambiato le condizioni di accesso al processo cumulativo, la ricaduta della innovazione dell'art. 40 cod. proc. civ. deve essere esclusa anche con riguardo al processo fallimentare. E la giurisprudenza risalente di questa corte che ha sistemato la connessione in questione, lungi dall'essere, come la sentenza impugnata ha ritenuto, superata, resta invece perfettamente attuale tant'è che essa è costantemente ribadita (cfr., in termini, Cass. n. 11021 del 1991).
Il ricorso deve dunque essere accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e deve essere dichiarato competente il Tribunale fallimentare di Lecco in ordine ad entrambe le domande di cui si è detto. La parziale novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio.
 

[1] In dottrina è stato osservato come tale soluzione, pur se importante dal punto di vista sistematico, privilegia in realtà il procedimento ordinario solo come soluzione di sfondo per ipotesi difficili da verificarsi, mentre nella gran parte dei casi resta privilegiato il rito del lavoro (cfr. Tarzia, I provvedimenti urgenti sul processo civile in Riv. Dir. Proc. 1990, p. 740).[torna al testo]


Rito fallimentare e cause connesse
di Andrea Pietrolucci
La sentenza in commento affronta, in relazione alla procedura fallimentare, le problematiche inerenti all'introduzione, da parte della Novella del '90, del 3°, 4° e 5° comma dell'art. 40 cod. proc. civ., i quali stabiliscono: “Nei casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 - e cioè nei casi di connessione per accessorietà, garanzia, pregiudizialità, compensazione e riconvenzione - le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442”.
Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore.
Se la causa è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del 3° comma, il giudice provvede a norma degli artt. 426, 427 e 439.
Lo scopo perseguito dalle nuove disposizioni è, per esegesi pacifica, quello di eliminare l'ostacolo che la diversità del rito poneva in passato alla realizzazione del cumulo delle cause connesse.
Nella previgente disciplina, infatti, l'assenza di una regola in ordine al rito destinato a prevalere, portava ad escludere la possibilità di una trattazione unitaria di cause soggette a riti diversi. Con l'introduzione delle nuove regole, invece, tale trattazione è stata resa possibile.
In particolare, sono state risolte due questioni, l'una relativa alla connessione tra una causa soggetta al rito ordinario ed una causa soggetta al rito del lavoro, l'altra relativa alla connessione tra cause soggette a diversi riti speciali.
Stabilisce, infatti, il 3° comma dell'art. 40 cod. proc. civ. che nei casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 - e cioè nei casi di connessione per accessorietà, garanzia, pregiudizialità, compensazione e riconvenzione - le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442.
La disposizione in commento sancisce così, in via di principio, la prevalenza del rito ordinario rispetto agli altri riti, ad eccezione delle cause rientranti fra quelle indicate negli artt. 409 e 442 che, in considerazione della peculiarità degli interessi sottesi alle controversie ivi previste, restano assoggettate al rito del lavoro.
E' d'obbligo notare come la deroga al rito per ragioni di connessione è consentita solo, per espresso richiamo, se si tratta di cause connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, cioè per le ipotesi di connessione per subordinazione (o connessione forte).
La deroga al rito per ragioni di connessione non è invece prevista per le ipotesi di connessione per coordinazione (o connessione debole: cumulo soggettivo, ex art. 33 cod. proc. civ. e cumulo oggettivo, ex art. 104 cod. proc. civ.). Ciò comporta la non assoggettabilità al simultaneus processus delle domande autonome, assoggettate a riti diversi, che si propongano per volontà delle parti nel medesimo giudizio.
In tal senso è stato affermato che le fattispecie di cumulo soggettivo ex art. 33 cod. proc. civ. e di cumulo oggettivo ex art. 104 cod. proc. civ. non sono comprese nell'ambito di applicazione dell'art. 40, 3° comma, cod. proc. civ., non potendosi ammettere che il mutamento di rito imposto da detta norma, possa dipendere da una mera scelta della parte attrice di due giudizi potenzialmente non connessi o non legati tra loro da un intenso legame di subordinazione, altrimenti violandosi il principio del giudice naturale precostituito, sancito dall'art. 25 Cost. (Cass, 19.12.1996, n. 11390).
Secondo una parte della dottrina il rinvio alle figure di connessione qualificata va inteso in senso tassativo e letterale, con la conseguenza che resterebbe esclusa la deroga al rito e la possibilità di cumulo non solo per le ipotesi ex art. 33 e 104 cod. proc. civ., ma anche per quelle di connessione per garanzia impropria (che si ritiene di consueto estranea all'art. 32 cod. proc. civ.) e di litisconsorzio facoltativo (cfr. Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, p. 23 e ss; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli 1991, p. 33; Luiso-Consolo-Sassani, Commento alla riforma del processo civile, Milano 1996, sub art. 40 p. 33; Nela, Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, Bologna 1992, p. 47).
Secondo altra parte della dottrina, invece, il richiamo testuale ha una valenza essenzialmente sistematica e va inteso quale richiamo di tutti i casi di connessione  cui si connette il pericolo di inconciliabilità delle pronunce o d'interferenza della disciplina da esse dettata, in modo da ricomprendere, oltre che alcuni casi di litisconsorzio facoltativo, tutti i casi di domande incompatibili o concorrenti (cfr. Merlin, RDP 1993, p. 1034 e ss.).
La seconda questione, cui le nuove disposizioni introdotte dalla Novella del '90 hanno cercato di dare una soluzione, è quella relativa alla connessione di cause soggette a diversi riti speciali.
Il 4° comma dell'art. 40 cod. proc. civ. stabilisce, infatti, che: “Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore”.
A differenza del comma precedente, il legislatore, nell'ipotesi di cause soggette a diversi riti speciali, non ha operato una scelta predeterminata per un certo rito, ma ha fissato dei criteri di cui tener conto ai fini dell'individuazione del rito che di volta in volta sarà applicabile.
Quindi, ove le cause siano soggette a differenti riti speciali, la trattazione simultanea, quando consentita, in base ai principi di cui sopra, dovrà avvenire secondo il rito cui è soggetta la causa in ragione della quale viene determinata la competenza o, in mancanza, secondo il rito previsto per la causa di maggior valore.
Per quanto riguarda la decisione contenuta nella sentenza in commento, la mancata lettura delle carte processuali, ci impedisce di valutare la pertinenza del richiamo in essa effettuato ai ricordati principi contenuti nell'art. 40 cod. proc. civ..
Occorrerebbe preliminarmente accertare se ci si trovi di fronte ad una domanda riconvenzionale ovvero ad una semplice eccezione riconvenzionale, tendente come tale, solo a paralizzare l'avversaria domanda. In questo caso, infatti, non sorgerebbe alcun problema di connessione, in quanto non si avrebbe influenza modificatrice della competenza.
La Suprema Corte ha, in merito, affermato che: “... l'eccezione riconvenzionale, proposta dal convenuto contro il curatore in sede ordinaria per un credito verso il fallito, è sottratta alla regola del concorso formale in quanto trattasi non già di aggressione processuale, ma di strumento di paralisi dell'azione subita”. (cfr. Cass. Civ. 5 giugno 1979, n. 2808, G. Com, 1978, II, 793).
Nel caso in cui, invece, ci si trovi di fronte ad una domanda riconvenzionale, tesa al riconoscimento di un credito verso il fallimento, da far valere non solo per paralizzare l'azione di quest'ultimo, ma anche per arrivare ad un titolo di credito nei confronti dello stesso, non sussisterebbe alcun dubbio sulla competenza esclusiva del Tribunale fallimentare di Lecco.
Partendo dall'assunto che la società convenuta abbia proposto, nel caso di specie, una domanda riconvenzionale, possono svolgersi le seguenti riflessioni. 
La decisione del Tribunale di Roma in ordine alla competenza del Tribunale fallimentare di Lecco con riferimento alla domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta, appare corretta. Di contro, il tema della connessione e del possibile simultaneus processus, fra una domanda riconvenzionale di pagamento somme avanzata nei confronti di un fallimento e la domanda di pagamento avanzata dallo stesso fallimento appare forse non pertinente. Infatti, trattandosi di domanda tesa al riconoscimento di un credito nei confronti di un fallimento, tale domanda riconvenzionale dovrebbe proporsi e trattarsi inderogabilmente nelle forme e secondo il procedimento concorsuale di accertamento e di verificazione dello stato passivo, ex artt. 92, 93 e 101 della Legge Fallimentare.
Sempre la Suprema Corte ha affermato  che: “... ai sensi dell'art. 52 (concorso dei creditori) il fallimento del debitore comporta la improcedibilità della domanda contro di lui proposta, in quanto la materia del contendere è attribuita dalla legge in modo esclusivo al giudice fallimentare...” (cfr. Cass. 15 maggio 1979, n. 2826, D FALL, 1979, II, 414). Aggiungendo che: “...qualora nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito del fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale .... la predetta domanda rimane improcedibile nella sede ordinaria, anche se il giudizio sia pendente davanti allo stesso tribunale fallimentare, dovendo inderogabilmente essere proposta e trattata nelle forme e secondo il procedimento concorsuale di accertamento e verificazione dello stato passivo” (Cfr. Cass. 21 maggio 1984, n. 3113).
Quindi, in questo caso, il raccordo tra il giudizio ordinario ed il giudizio speciale fallimentare è strettamente collegato con i problemi che pone la verifica dei crediti (artt. da 92 a 103 L.F.), potendosi porre un problema di connessione solo con riferimento alla fase contenziosa ex art. 101 L.F. e/o alla fase di opposizione, ex art. 98 L.F.
Del resto, in relazione alla fase dell'accertamento del passivo ex art. 93 L.F., trattandosi di una fase sommaria, i principi fissati dall'art. 40 cod. proc. civ. non trovano applicazione ed un problema di cumulo, ma non di deroga al rito, si potrebbe porre solo nella fase successiva, instaurata conseguentemente all'opposizione proposta dai creditori esclusi o ammessi con riserva ex art. 98 L.F..
Infatti, con l'opposizione si instaura un giudizio ordinario trasportato nell'ambito del fallimento e, pertanto, modificato nel rito (appunto ordinario).
In questo caso nessun ostacolo sorgerebbe in ordine alla connessione delle cause. 
Nel caso in cui, invece, la domanda riconvenzionale intervenga in un momento successivo alla chiusura dello stato passivo, il credito, vantato per mezzo della domanda riconvenzionale, dovrà considerarsi tardivo, con la conseguenza che si dovrà seguire la procedura di cui all'art. 101 L.F.. 
Procedura ex art. 101 L.F. che, nella sua seconda fase, che si apre all'esito del parere eventualmente sfavorevole del curatore, diventa un giudizio ordinario, nel quale il giudice deve provvedere all'istruzione della causa, a norma degli artt. 175 e ss. cod. proc. civ.. 
In tale caso, comunque, non si porrebbe neanche un problema di deroga ad rito. Infatti, con la sua contestazione il curatore provoca la transizione alla vera e propria fase contenziosa del processo: egli perde il suo potere inquisitorio ed il processo deve svolgersi secondo i principi del rito ordinario (cfr. Cass. Civ. 15 giugno 1981, n. 3871), tra cui quelli dettati in tema di connessione.
 


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