Giurisprudenza di merito 
con nota di Italo Scalera
Trib. Avezzano- 14  febbraio 1999 (decr.) - Pres. Filippini - Rel. Picaro - Avv. Lucci C. Fall. Massimo del Fante

FALLIMENTO - RECLAMO AL COLLEGIO - VINCOLATIVITÀ ALLE DOMANDE DELLE PARTI - ESCLUSIONE - NATURA INQUISITORIA - SUSSISTENZA (ART. 26 L.F.)

FALLIMENTO - INCARICO AL PROFESSIONISTA - LIQUIDAZIONE DEL G.D. - RECLAMO AL COLLEGIO - REFORMATIO IN PEIUS - AMMISSIBILITÀ (artt. 25 n. 6 - 2 L.F. )

FALLIMENTO - LIQUIDAZIONE COMPENSO PROFESSIONALE - PROVVEDIMENTO DEL G.D. - MORA - ESCLUSIONE (artt. 25 n. 7 L.F.; 1282 C.C.) 

FALLIMENTO - RIPARTO - RITARDO NEL PROCEDIMENTO - MORA - ESCLUSIONE (artt. 110 L.F.; 1282 C.C. )

 Il procedimento del reclamo previsto dall'art. 26 L.F. apre un procedimento di tipo inquisitorio nel quale il Tribunale, nell'esercizio delle proprie funzioni di controllo sull'operato del g.d., non è vincolato dalle richieste delle parti. [1]

 Qualora la liquidazione di un compenso professionale del g.d. venga impugnata con detto reclamo, il Tribunale ha il potere-dovere di ridurre tale liquidazione - se ritenuta eccessiva - e di condannare il professionista alla restituzione di quanto riscosso in 
eccedenza. [2]

 I crediti del professionista per l'attività svolta nell'interesse del fallimento divengono certi, liquidi ed esigibili solo con il provvedimento di liquidazione del g.d. e solo da detta data, a sensi dell'art. 1282 cod. civ., decorrono gli interessi corrispettivi. [3]

 Nell'adempimento dei debiti di massa non è mai configurabile la mora colpevole dell'ufficio fallimentare che provveda ai pagamenti secondo i criteri di ripartizione stabiliti dal g.d. sulla base delle sole somme al momento disponibili.[4]

(omissis)
Ritenuta l'ammissibilità e tempestività dei reclami ex art. 26 L.F. in quanto a seguito degli interventi della Corte Costituzionale il termine d'impugnazione mutuato dalla disciplina dei procedimenti camerali è di dieci giorni e non più di tre giorni e decorre, anziché dalla pronuncia, dalla comunicazione del provvedimento impugnato (vedi Cass., sez. I, 6.5.85 n° 2827, che ha affermato l'applicabilità della disciplina relativa ai procedimenti in camera di consiglio per colmare le lacune determinate dalle pronunce della Corte Costituzionale), sicché questo Tribunale a fronte della richiesta dell'interessato di liquidazione della differenza di compenso di circa Lit. 60.000.000 non riconosciutagli senza alcuna motivazione dal g.d. e di corresponsione degli interessi legali sulle somme liquidate dai singoli incarichi ha il potere-dovere di rideterminare la liquidazione spettante all'avvocato reclamante, se ritenuta non rispondente a corretti criteri, e perfino il potere di ridurre la somma liquidata e di condannare di conseguenza il professionista al rimborso di quanto riscosso in eccedenza, posto che il reclamo apre un procedimento di tipo inquisitorio, nel quale il Tribunale, nell'esercizio delle proprie funzioni di controllo sull'operato del g.d., non è vincolato alle richieste delle parti (vedi in tal senso Cass. sez. II, 21.2.1992 n° 2129 e Cass. sez. I, 5.11.1987 n° 8148).
Rilevato quanto alla richiesta di pagamento degli interessi legali sulle somme spettanti, che trattandosi qui di crediti nei confronti della massa insorti nell'interesse di tutti i creditori della procedura e non di crediti esistenti nei confronti del fallito prima della dichiarazione di fallimento non può trovare applicazione la regola sancita dall'art. 55 L.F. della sospensione degli interessi a partire dalla dichiarazione del fallimento valevole per i crediti concorsuali (vedi in tal senso Cass. 1.8.92 n° 9161; Cass. 6.3.92 n° 2716; Cass. 19.12.90 n° 12064) , giustificandosi piuttosto il pagamento in prededuzione ex art. 111 n° 1 L.F. e l'applicazione della norma generale in materia di interessi corrispettivi, rappresentata dall'art. 1282 cod. civ., che richiede che il credito pecuniario sia liquido ed esigibile: nel caso di specie prima del provvedimento di liquidazione adottato dal g.d. il 13.6.98 il credito del professionista non era determinato nel suo ammontare, ancorché esigibile, sicché solo da tale data potrebbero decorrere gli interessi corrispettivi, non potendosi equiparare a domanda giudiziale la richiesta di liquidazione delle spettanze che risulta presentata ai curatori dall'avv. Claudio Lucci il 19.6.97.
Quanto alla richiesta alternativa di interessi moratori al tasso legale, naturalmente non cumulabili con gli interessi corrispettivi. la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che non è mai configurabile la mora colpevole nell'adempimento dei crediti di massa (vedi in tal senso Cass. 20.11.87 n° 8556; Cass. 19.1.87 n° 71; Cass. 6.2.86 n° 719; Cass. 4.10.82 n° 5076) , che vengono pagati secondo i criteri di ripartizione stabiliti dal Giudice delegato sulla base delle somme disponibili. ma nel caso di specie è pacifico che la massa disponesse di fondi sufficienti a soddisfare il professionista, che vantando un credito certo ancorché non liquido, con la richiesta del 19.6.97 ( vedi richiesta di liquidazione spese e competenze con allegata specifica del 19.6.97 ) aveva costituito in mora la curatela fallimentare, con conseguente maturazione degli interessi di mora al tasso legale dal 19.6.97 fino al saldo effettivo, verificatosi, peraltro in misura eccessiva in data16.6.98 ( vedi copie assegni circolari in atti e ricevuta sottoscritta dall'avv. Claudio Lucci): non potendosi infatti applicare la regola della sospensione del corso degli interessi di cui all'art. 55 L.F. e non essendovi carenza di fondi, non vi è ragione che giustifichi un trattamento privilegiato della curatela fallimentare rispetto a qualsiasi altro soggetto. tanto più che la giurisprudenza della Suprema Corte ha recentemente riconosciuto che la parcella dell'avvocato, concretandosi in una richiesta di pagamento delle prestazioni rese da un professionista è atto idoneo a costituire in mora il cliente ai sensi dell'art. 1219 cod. civ. ed a segnare quindi, in virtù della disposizione dell'art. 1224, 1° comma, cod. civ. il termine di decorrenza degli interessi legali (vedi in tal senso Cass. sez. II, 30.10.96 n° 9514; Cass. 12.10.87 n° 7550);
(omissis)

Achtung: Beschwerde einlegen gemaB Art. 26 des Konkursgesetzes 
gefahrdet die (verfahrensrechtliche) [1]

Il provvedimento del Tribunale di Avezzano ricalca fedelmente l'orientamento della Suprema Corte (21 febbraio 1992 n. 2129) per quanto riguarda la prima massima e quindi il commento che andiamo a fare al recentissimo decreto va in sostanza a dissentire una pronuncia della Corte alquanto risalente.
Ma, come spesso accade, il decreto del Tribunale ha costituito lo spunto per rimeditare una situazione che riteniamo assolutamente non condivisibile.
Ci sforzeremo di rendere chiaro il nostro pensiero con una rivisitazione dell'istituto dal reclamo ex art. 26 L.F.. Per gli aspetti in chiave costituzionalistica e per evitare di ripeterci, rinviamo ad un nostro recente lavoro [2].  Di interesse appare anche il profilo della reformatio in peius che sarebbe possibile in questi casi sia secondo la Corte che il Tribunale.
Un professionista il quale reclami per un'eccessiva riduzione dei propri onorari applicata dal g.d. corre, quindi, il rischio di vedersi ulteriormente ridurre i medesimi e di venir condannato, senza possibilità di appello, alla restituzione dell'eccedenza.
Il titolo della presente nota (traduzione: “Attenzione: il ricorso al reclamo ex art. 26 legge fallimentare nuoce gravemente alla salute processuale”) che abbiamo voluto rivestire con la lingua tedesca notoriamente più incisiva e tranciante specie nelle espressioni di divieto, vuol proprio dar voce a tale disagio.
Le massime 2 e 3 appartengono alla personale applicazione che il Tribunale ha svolto in materia di decorrenza ed applicazione degli interessi sui crediti in prededuzioni e per i quali è giunto alla sconcertante conclusione secondo la quale sarebbe il debitore - anche se un g.d. alla direzione di una procedura fallimentare - a determinarne il dies a quo del decorso, decidendo egli se, quando et quantum rendere detto credito liquido ed esigibile.
Il che potrà sicuramente tornare di utilità per la procedura, ma non cosi per il creditore rimesso alla volontà del suo debitore.

Sub 1 - Il provvedimento del Tribunale si adegua al pronunziamento della Suprema Corte (Sez. II 21 febbraio 1992 n. 2129) ricalcandone pedissequamente la ricostruzione in essa tracciata in materia di reclamo ex art. 26 L.F.
Dissentire da detto decreto equivale a contestare l'indirizzo della Suprema Corte, compito che non abbiamo sicuramente la statura e l'autorevolezza di affrontare. E' quindi solo un contributo da proporre alla riflessione di tutti onde un giorno la questione possa essere riportata nuovamente alla Corte per una rivisitazione ed una nuova meditazione sul problema.
Per giungere a tale risultato, occorre ripartire da zero e cioè dalla struttura e natura giuridica del reclamo ex art. 26.
Superiamo de plano tutte le complesse e variegate vicissitudini, anche costituzionali, dell'istituto per giungere allo stato attuale de facto, anche alla luce della recente sentenza della Consulta del 6 novembre 1998 n. 363.
Il reclamo ex art. 26 è pacificamente esperibile contro tutti i decreti non interlocutori del g.d. pronunziati nell'ambito della conduzione della procedura fallimentare e nell'ambito dei poteri a lui riservati, nel termine di 10 giorni dalla loro comunicazione; esso è strutturato in analogia a quanto disposto dall'art. 737 cod. proc. civ.; è compatibile la partecipazione del g.d. al Collegio che decide il reclamo.
Partendo da questa situazione pacificamente accettata e strutturata, dobbiamo domandarci quale sia la natura giuridica del reclamo ex art. 26.
Riteniamo che essa sia di impugnazione e la nostra non è una voce isolata: PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 686; MARTINETTO in Diritto fallimentare, 1968, I, 328; RICCI, Lezioni sul fallimento, Milano, 1997, 300 dove parla di “gravame di tipo evolutivo e sostitutivo”; RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988; BONSIGNORI, Il fallimento, Padova, 1986; SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 113 dove parla di “speciale procedimento d'impugnazione”; TEDESCHI, Le procedure concorsuali, Torino, 1996, 209 dove si parla di “gravame di tipo devolutivo, che deve contenere gli elementi essenziali dell'impugnazione: volontà e dichiarazione di impugnare, motivi”; RAGUSA MAGGIORE-COSTA, Le procedure concorsuali, Torino, 352 dove si parla a proposito del decreto del Tribunale come di “una decisione di secondo grado”; FERRARA-BORGIOLI, Il fallimento, Milano, 1995, 273; PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1993; Cuneo, Le procedure concorsuali, Milano, 1988; SATTA-PUNZI, Manuale di diritto processuale civile, Padova, 1996,238; CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934; PROVINCIALI, Sistema delle impugnazioni civili, Padova, 1943; Delle impugnazioni in genere, Napoli,1962; LIEBMAN, Appunti sulle impugnazioni, Milano, 1961; FAZZALARI, Il processo ordinario di cognizione - le impugnazioni, Torino, 1990; BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Dig. Priv. Sez. civ. IX, Torino, 1970; CARNELUTTI, Diritto e processo, Roma, 1958, 234).
Tale elencazione, non certo esaustiva ma solo indicativa, inquadra il reclamo nel novero delle impugnazioni. Ed è agevole riscontrarne l'esistenza dei presupposti. 
Esistenza di un provvedimento pronunciato da un appartenente alla giurisdizione; lamentata ingiustizia del provvedimento medesimo; volontà e dichiarazione di impugnarlo per ottenerne la revoca o la riforma; adire un giudice gerarchicamente superiore al primo; possibilità da parte del secondo giudice di confermare, revocare, modificare il provvedimento impugnato; svolgimento del procedimento di impugnazione avanti un organo della giurisdizione diverso e nel quadro di un procedimento previsto e conforme alla legge.
Tali caratteristiche e presupposti dell'impugnazione in generale, sono tutti riscontrabili nel procedimento per reclamo ex art. 26 e, di conseguenza possiamo affermare che è anch'esso un mezzo d'impugnazione, sia pure latu sensu, sia pure con le peculiarità di questo sistema.
Se è tale, deve essere inquadrato rigorosamente tra essi ed in primo luogo è quindi soggetto all'impulso di parte.
Il discorso a questo punto si fa incisivo.
Al reclamo si devono, quindi, applicare i disposti degli artt. 99, 100, 112, 115, 323, 737, 739 cod. proc. civ..
In primis l'impulso di parte. Solo i soggetti indicati dall'art. 26 (salvo gli ulteriori distinguo per il curatore limitato ai casi di presunta lesione di un diritto proprio personale e non riguardante la procedura, che però qui non interessano) hanno diritto e facoltà assolutamente discrezionale a proporre il reclamo; se hanno tale facoltà, ne hanno altrettanta, esclusiva e discrezionale, a rinunziare al reclamo, essendo sufficiente l'autonomo esercizio di tale facoltà per provocare l'automatica e conseguente definitività del provvedimento reclamato non essendo necessario il consenso delle eventuali controparti così come accade in tutte le impugnazioni.
Se anche questo punto è condivisibile, ecco che appare opinabile e discutibile il presupposto logico e di base che l'Ecc.ma Corte ha posto a base del suo ragionamento nella sentenza 2129/92, ragionamento pedissequamente seguito dal Tribunale di Avezzano. Ci riferiamo all'enunciato potere-dovere del Tribunale della reformatio in peius  “in virtù del particolare procedimento di tipo inquisitorio nel quale esso, nell'esercizio delle proprie funzioni di controllo sull'operato del g.d., non è vincolato alla richiesta delle parti”  (Cass.n. 2129/92).
In primo luogo detto potere-dovere di controllo del Tribunale sugli atti del g.d. non è espressamente stabilito dalla L.F. la quale si limita ad enunciare all'art. 23 che “il Collegio è investito dell'intera procedura fallimentare" e può essere ricavato solo dalla facoltà inserita in detta norma al comma 2 di “surrogare” altro giudice al g.d.. L'ordinamento ritaglia tale potere in via generale che però può concretizzarsi con un'unica sanzione -la surrogazione del g.d.- la più grave e definitiva, ma sicuramente non con la revoca o modificazione di quegli atti che hanno fatto venir meno la fiducia nell'organo concorsuale o la non condivisione della conduzione della procedura.
Questo è il vero ed unico potere-dovere di tipo inquisitorio ritagliato per il Tribunale.
Nel procedimento per reclamo rimesso per la sua attivazione e svolgimento alla libera volontà di soggetti ben individuati interni ed estranei alla procedura, è concettualmente difficile riscontrare gli spazi per un procedimento inquisitorio ed un potere-dovere da parte del giudice adito ed attivato per esclusive finalità soggettive di muoversi, aldilà dell'impulso e dei limiti tracciati dalla parte che ha promosso l'impugnazione.
Incisivamente la dottrina (RAGUSA MAGGIORE - COSTA op. cit. 352) dice che “in realtà il Tribunale fallimentare, a parte gli atti di sua specifica competenza, svolge anche un'attività di controllo sull'intera procedura ma con carattere di eventualità ed episodicità a seconda delle specifiche questioni che vengono sottoposte al suo esame .... e non è concepibile che il giudice dell'impugnazione esamini, senza esserne richiesto, e nei limiti della richiesta, un provvedimento che abbia formato oggetto di decisione di un primo giudice... e che il Trib. fallimentare non può in alcun caso non solo censurare ma nemmeno esaminare un provvedimento del g.d. se non investito nelle forme stabilite dalla legge”.
Quindi, il potere di controllo in questione del Tribunale, se inquisitorio ed officioso, non si può estrinsecare certamente nei casi solo eventuali e lasciati al potere dispositivo delle parti; deve potersi espletare sempre e d'ufficio, ma in tal caso esso non può revocare, modificare, integrare gli atti del g.d., ma solo surrogare detto giudice. 
Principio generale e cardine nel processo di fallimento. La costituzione degli organi concorsuali in organizzazione gerarchica - vigorosamente sostenuta dal Provinciali - la assoluta autonomia e competenza funzionale di ognuno di essi con i soli limiti della surroga del g.d. e della sostituzione del curatore, ma sempre a provvedimenti o comportamenti ormai adottati, confermano tale impostazione.
Anche gli atti del curatore non sono modificabili, revocabili, integrabili da parte del g.d. (e in seconda battuta dal Tribunale) salvo i casi anch'essi eventuali dei reclami ex art. 36; il g.d. potrà richiedere, ove il curatore si discosti dalle sue direttive, la sua sostituzione al Tribunale. Anche il g.d. abbisogna dell'iniziativa del curatore per concedere tutte quelle autorizzazioni previste dall'art. 25 nn.4, 6, 7 che non può concedere, né attivare d'ufficio.
Potere-dovere, inquisitorietà debbono prevedere assolutamente le attivazioni d'ufficio dell'organo a ciò preposto, il quale non può restare inerte ad attendere le eventuali, discrezionali iniziative di reclamo di questo o quel soggetto, iniziative che potrebbero anche mancare, vanificando così i poteri-doveri, l'inquisitorietà, i controlli del Tribunale.
Dobbiamo, quindi, rileggerli come sempre officiosi, a prescindere dal reclamo (artt. 26 e 36), ma con una sola possibile estrinsecazione del potere consistente nella sostituzione del curatore o surrogazione del g.d. e non come ingerenza nell'attività espressa o esprimenda dell'organo concorsuale. Si noti come la legge parli di “surrogazione” del g.d. nell'art. 21 e di “sostituzione” del curatore nel medesimo articolo 21 e nell'articolo 37. Una diplomatica, sottile, diversificazione espressiva per intendere la medesima cosa.
In tale ottica e chiave di lettura, vediamo come sia agevole e conseguente ritenere che nel reclamo ex art. 26 il Tribunale sia vincolato alle richieste delle parti, che sia quindi vigente il divieto dell'ultra vel extra petita e della reformatio in peius.
La tutela officiosa ed inquisitoria sul corretto funzionamento della procedura fallimentare, è sempre affidata al Tribunale che però potrà attuarla con la sostituzione degli organi concorsuali che abbiano deviato dalla corretta attuazione della stessa; nella sede dei reclami è la tutela degli interessi e/o diritti della parte reclamante che deve essere attuata, ma nei limiti della domanda.
Prova ne sia che in caso diverso ne risulterebbe violato il primario divieto della reformatio in peius, conquista della nostra civiltà giuridica e fondante elemento dell'ordinamento, anche se più esplicitamente inserito nel sistema processuale penale.
Il cittadino deve essere libero, certo, protetto di azionare ogni suo diritto garantitogli dall'ordinamento e quindi anche di ricorrere al giudice del riesame senza possibilità di “ritorsioni processuali”, di un ulteriore pregiudizio ai propri diritti già, presuntivamente, lesi dal primo provvedimento. Questo costituisce già il limite estremo al di là del quale (salvo l'impugnativa dell'altra parte interessata, ma sempre parte, costituita dal PM) non si può andare.
Il diritto ad impugnare, commisto ad una possibile comminazione di un peggioramento della situazione, sarebbe irrimediabilmente compromesso, limitato e coartato nella sua libera disponibilità e finirebbe inevitabilmente nella disapplicazione di fatto.
Poniamo per esempio che un g.d. liquidi, in perfetta buona fede, ad un legale un compenso enorme, spropositato oltre le tariffe; il beneficiario ovviamente non presenterebbe reclamo; il curatore non avrebbe legittimazione a farlo; il Tribunale nel suo potere-dovere a carattere inquisitorio non potrebbe in alcun modo modificare, revocare, ridurre il provvedimento del g.d., ma solo surrogare quest'ultimo e la, in tesi, ingiustizia resterebbe tale perché il provvedimento non sarebbe modificabile d'ufficio.
Caratterizzata la procedura fallimentare dal carattere officioso ed inquisitorio non è, nella fase prodromica, ancora un processo, bensì un procedimento officioso nel quale creditore, P.M., giudice civile, qualunque interessato possono sollecitare i poteri d'ufficio del Tribunale fallimentare, il quale può dettare addirittura proprie regole di irricevibilità (somma minimale del credito vantato, preventivo azionamento di procedura esecutiva forzata, etc) a riprova che non esiste in capo al sollecitatore (creditore o meno) un diritto soggettivo perfetto all'attivazione dello svolgimento del processo fallimentare. (Cfr. FERRARA - BORGIOLI, Il Fallimento, Milano 1996, 44 “non c'é un creditore che abbia potere d'impulso ai fini dell'esecuzione”; BONSIGNORI; Il fallimento, Padova, 1986, 97).
Ecco che risulta prorompente il discrimen cennato.
Un illuminante esempio. Altro problema - per certi aspetti collegato a quello della natura di impugnazione dell'opposizione a stato passivo - riguarda ammissibilità di una reformatio in peius in danno del creditore opponente. “La soluzione negativa, prospettata dall'orientamento prevalente (Cass.80/3636; Trib. Milano 21.12.1978, Il fall. 79, 862; Trib. Roma 2.2.1989, Il fall: 89, 854; contra Trib. Milano 21.4.1977, Dir. fall. 77, II, 505; Trib. Milano 24.1.1983, Il fall. 83, 874; LANFRANCHI, Fallimento voce Accertamento del passivo, Enc. Treccani, p. 18), si fonda sul rilievo che il curatore, fuori dall'ipotesi eccezionale prevista dall'art. 102, non è legittimato ad impugnare l'ammissione di un credito disposta dal g.d.. (Cass. 80/3636). In quest'angolo visuale si afferma che, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore non è pertanto legittimato a chiedere un riesame del provvedimento ammissivo del credito, né a contestare il riconoscimento del credito operato in sede di verifica al passivo (Trib. Verona 12.11.1987, Il fall. 88, 1121; App. Milano 24.9.1985, Il fall. 86, 987). Ne segue che il curatore può svolgere tutte quelle difese destinate a paralizzare la pretesa fatta valere dal creditore con l'opposizione, ma non può proporre eccezioni volte ad invalidare o far caducare il provvedimento del g.d. che abbia, ad esempio, già ammesso al passivo, in via chirografaria, il credito dell'opponente insinuato in via privilegiata (Trib. Pavia 14.10.1988, Il fall. 80, 555)”. MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 1991, sub art. 98.
I residuali spazi dell'autotutela, oltretutto oggi rivisitabili dopo la novella del 1990, sono relegati negli artt. 146 e 150; sicuramente né il g.d. né il Tribunale possono “condannare” alcuno al pagamento di alcuna somma, bensì - e solo dal g.d. e solo se richiesto dal curatore - può essere autorizzato un giudizio di primo grado, di rito ordinario, a cognizione piena nei confronti del soggetto ritenuto debitore per ottenere una sentenza di condanna soggetta a sua volta alle impugnazioni ordinarie e straordinarie.
Il sistema endoprocessuale fallimentare è predisposto per risolvere le questioni che insorgono all'interno del processo di fallimento e nel suo svolgimento. Non può certamente, g.d. o Tribunale che sia, decidere su diritti soggettivi di soggetti terzi in un incomprensibile quanto inammissibile rito di un procedimento speciale nel quale si condannino per decreto con rito camerale, in un unico (sotto) grado processuale, senza garanzie processuali, soggetti terzi al pagamento di somme che vengono ritenute dovute e senza che questi sia a conoscenza della contestazione che viene mossa e per la prima volta nel provvedimento di condanna.
 Quindi la “condanna” al pagamento dell'eccedente percepito, costituisce pronuncia abnorme che deve essere annullata.

Sub 2 e 3 - Il credito del professionista matura pacificamente al compimento e conclusione dell'incarico affidatogli.
Il debitore, nella specie il fallimento che aveva conferito l'incarico, deve adempiere la relativa obbligazione con la diligenza del buon padre di famiglia; anzi, trattandosi di esercizio di attività professionale -curatore e g.d.- la diligenza deve valutarsi ancor più rigorosamente con riguardo alla natura dell'attività esercitata, nella specie conduzione di procedura esecutiva collettiva con implicanze pubblicistiche (art. 1176).
L'art. 1918 cod civ. prescrive che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento danni, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è derivato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile.
L'art. 25 n. 7 L.F. prevede che sia il g.d., il quale ha in precedenza ai sensi del superiore n. 6 nominato l'avvocato, a liquidargli il compenso.
L'art. 111 L.F. prescrive - e la stratificata dottrina e giurisprudenza confermano - che le obbligazioni contratte dall'Ufficio fallimentare debbano - se vi siano disponibilità liquide - essere pagate senza indugio alle naturali scadenze e che esse producono interessi.
Dal richiamo delle ricordate norme emerge una paradossale situazione che l'ufficio concorsuale ha posto in essere. Alla conclusione cioè dell'incarico affidato al professionista nasce in capo a questi il diritto di credito al giusto compenso che però, risum teneatis, è lo stesso debitore (la procedura fallimentare) che glielo deve liquidare per quantificarlo e per renderlo esigibile; il debitore ritarda nella liquidazione non rendendo liquido il suo debito ed impedendo, così almeno ritiene, che esso produca interessi, mentre egli debitore continua a percepire interessi sulle somme liquide della procedura depositate in banca.
L'ufficio fallimentare ha il dovere di comportarsi con diligenza, provvida solerzia e celerità nell'adempiere le proprie obbligazioni in prededuzione, ben sapendo che in difetto graverebbe la massa da interessi.
L'ufficio ha, quindi, il dovere di liquidare con sollecitudine il compenso agli avvocati (art. 25, 7) e di effettuare il pagamento con rapidità per evitare l'accumulo di interessi previsti dagli artt. 1282, 1206, 1176, così come per qualsiasi altra obbligazione. Si prenda ad esempio il caso di un lavoratore dipendente licenziato durante il fallimento: il suo credito per il TFR produce sicuramente interessi dalla cessazione del rapporto di lavoro e non certo dalla liquidazione del g.d..
L'avvocato non ha il corrispondente obbligo di richiedere con immediatezza che il g.d. liquidi la prestazione, in primo luogo perché professionista ben educato e rispettoso che confida che il g.d. farà quanto dovuto con autonoma sollecitudine.
L'avvocato nella fattispecie si è limitato a partecipare ai curatori, via via, gli esiti favorevoli dei processi a lui affidati e poi è rimasto in rispettosa attesa. Sei anni sono però un'attesa abnorme, ed allora ha cominciato a sollecitare l'ufficio.
Il Tribunale statuisce ora che gli interessi decorrerebbero da quando il credito sia divenuto certo, liquido ed esigibile, dimenticando di aggiungere e di ricordare che solo il g.d. poteva renderlo tale e che il professionista non aveva  altri mezzi per esigere il proprio credito o per renderlo certo ed esigibile.
L'Ufficio concorsuale è venuto meno ai suoi doveri di diligenza e sollecitudine nello svolgere il proprio pubblico incarico ed appare equo pertanto di dover corrispondere al professionista gli interessi dal compimento dell'incarico al momento del pagamento.
Vi sarebbe in caso contrario oltretutto un evidente caso di arricchimento senza causa (art. 2041 cod. civ.) per la corrispondente somma in favore dell'ufficio.
Queste le riflessioni che proponiamo al lettore su di una fattispecie la risoluzione della quale nel modo sinora statuito non risponde sicuramente ad equità e, sommessamente, nemmeno ad una corretta interpretazione del diritto concorsuale il quale deve rimanere sempre strettamente collegato a quello processuale civile. 


Note

[1] Traduzione: “attenzione: il ricorso al reclamo ex art.26 Legge Fallimentare nuoce gravemente alla salute processuale”. [torna al testo]

[2] Il diavolo e l'acqua santa... In nota a Corte Costituzionale 6 novembre 1998 n. 363 in Dir. Fallim. 1999, I [torna al testo]


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