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Appunti storici sull'insolvenza ed i suoi effetti

1. Diritto romano - 2. Diritto barbarico e statutario - 3. Elaborazione dottrinale e legislativa
di Maria Stefania Lazzari e Francesco Viroli
 

1. E’ più che noto che la storia dei singoli istituti giuridici dimostra che essi vengono lentamente specificandosi, fino a divenire un tutto organico, governato da leggi speciali, contrassegnate da caratteri propri. Queste, già presso i popoli più antichi, gli Ebrei, gli Egizi, i Greci, hanno in comune, come nota peculiare, il trattamento severissimo contro il debitore insolvibile: “qui non habet in aere, luat in corpore”, chi non ha denaro, paghi con il corpo.
Invero, nei rapporti tra creditore e debitore, il vincolo patrimoniale si tramuta in vincolo personale, cosicché la principale garanzia del primo è costituita non dai beni, ma bensì dalla persona del secondo, che, in caso di inadempienza, è costretto al pagamento, ad esclusiva scelta del creditore, con le sevizie, con la schiavitù, con la morte.
A questo principio si ispirò anche la primitiva legislazione romana.
Le leggi delle XII Tavole (emanate nel 453 - 452 a.C.) attribuirono il debitore nella piena proprietà del creditore, che acquistava il diritto di tradurlo, con una catena al collo, nella propria casa, di percuoterlo con un nerbo di bue, di porlo in ceppi, di peso non maggiore di quindici libbre, con il solo obbligo di dargli giornalmente un pane di farro (“secum ducito, vincito, aut nervo aut compedibus quindecim pondo ne maiore, aut si volet, minore vincito, libra farris in dies dato”).
Trascorso il termine di trenta giorni, se il debitore non pagava, o se in seguito alle pubblicazioni che dovevano farsi per tre mercati consecutivi, nessuno si presentava a pagare per lui, egli era posto in schiavitù del creditore, che poteva eseguirne la vendita agli stranieri al di là del Tevere, oppure ucciderlo, spartendone le membra con gli altri creditori: “tertiis nundinis partis secanto; si plus minusve secuerunt, ne fraude esto” (Tab. III, 6): dopo il terzo mercato sia fatto a pezzi; non commettono reato (i creditori che, in proporzione al credito vantato), ne dissezionano una parte maggiore o minore.
Aulo Gellio, nel suo commento alla legge, che definisce “horrificam atrocitatis ostentu ... nihil profecto immitius, nihil immanius ... tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam unquam perveniretur”, si affretta a concludere: “dissectum esse antiquitus neminem neque legi, neque audivi”.[1]
Ma questa del buon Aulo non è che una pia asserzione, seccamente e nettamente smentita dalla realtà storica.
Soltanto nell’anno 428 di Roma (326 a.C.), autorevolmente afferma Tito Livio[2], una sommossa popolare, provocata, in generale, dal continuo susseguirsi del macabro rituale di cui erano vittime i debitori insolventi, e, nel caso particolare, dalla sodomizzazione del debitore, portò all’emanazione della “Lex Poetelia Papiria” che, ponendo il principio per cui la vera garanzia dei creditori doveva ricercarsi nel patrimonio e non nella persona del debitore, (“pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esse”), sovvertì radicalmente le basi del precedente regime dell‘insolvibilità.
Inoltre il valore e l’importanza della legge Petelia sono accresciuti dal fatto che con essa venne introdotto il criterio distintivo tra due categorie di debitori.
Essi furono assoggettati ad un diverso trattamento, a seconda che fossero di buona o di mala fede, prendendo cioè in considerazione se la loro inadempienza derivasse da mero infortunio o dalla frode.
I primi furono sottratti all’esecuzione personale e per essi fu vietato l’uso del nerbo e dei ceppi (“ne quis in compedibus aut in nervo tenetur”).
I debitori di mala fede, invece, (“qui noxam meruissent”), rimasero soggetti all’esecuzione personale e costretti “in compedibus”, come mezzo di coazione al pagamento e, al tempo stesso, come pena della frode, “donec poenam luerent”.
Tutto ciò, tuttavia, non servì mai ad eliminare la pena dell’infamia che, sempre ed ovunque, marchiò i debitori insolvibili, denominati, nelle fonti romane di tutti i tempi, con i termini più disonorevoli: infames, fraudatores, diminuentes patrimonium, deceptores, conturbatores.
I debitori, anche incolpevoli, soggetti alla “capitis deminutio”, erano pertanto esclusi dalle dignità civili e militari, dalle cariche giudiziarie, e da qualunque altro ufficio; non potevano essere accusatori nei giudizi penali, erano indegni di essere sentiti come testimoni, non potevano alienare, contrattare, prestare fideiussione.
Neppure potevano essere spettatori dei pubblici spettacoli, fino a che l’Imperatore Adriano ebbe la brillante idea di consentire ai deceptores di assistervi, ma a condizioni anche peggiori dell’esclusione: costretti a sedere in un settore dell’arena loro riservato, da tutto il pubblico presente dovevano essere “catamidiati”, ossia sbeffeggiati, derisi, insultati, bersagliati da ogni genere di immondizie.
Ma, con il passare del tempo, tutto questo si rivelò insufficiente, tanto che l’Imperatore Valentiniano ripristinò contro i debitori fraudolenti la pena capitale, che fu confermata anche da una successiva legge di Graziano.

2. Avvenuta la completa distruzione dell’Impero Romano di Occidente, nella seconda metà del secolo VI, causata dalla tremenda invasione in Italia dei Longobardi, al diritto dei vinti si sostituì quello dei vincitori, che comunque, per la ferocia, eguagliò quello decemvirale romano: la sorte riservata al debitore inadempiente rimase lo stato di schiavitù o la perdita della vita.
L’insolvibile poteva sottrarsi a così dura condizione o con la “obnoxiactio”, la volontaria costituzione in perpetua servitù del creditore, oppure con il “crene cruda” l’accettazione di un congiunto di pagare in sua vece. Questo istituto si compiva con speciali formalità, assai strane: il debitore, sulla soglia della sua casa, doveva lanciare una manciata di terra addosso alla persona disposta a pagare per lui “et postea in camiscia et discalciatus cum palo in manu supra sepem salire”.[3]
Trascorsi alcuni secoli, il graduale affrancamento delle città italiane dai vincoli feudali, l’adozione di autonomi ordinamenti, l’istituzione delle magistrature comunali, la sempre più rapida espansione del commercio, determinarono l’elaborazione del diritto comune e di quello statutario, i quali trovarono la loro base nelle tradizioni legislative romane.
Diverse quindi furono le procedure per garantire il diritto dei creditori di fronte ai debitori inadempienti:
 l’esecuzione reale, anche parziale, attuata con il sequestro od il pignoramento, tornati in grande auge, o per mezzo dell’immissione nei beni, una porzione dei quali, sufficiente a saldare il debito, veniva aggiudicata ai creditori;
 l’esecuzione personale, nelle forme della “addictio” romana o della “obnoxiactio” barbarica, che costringeva il debitore a lavorare nell’interesse del creditore fino all’estinzione del debito;
 l’arresto per debiti, scontato in carcere pubblico, che si protraeva fino al completo pagamento del debito, e che si tramutava, per gli insolvibili, nella perdita perpetua della libertà.
I debitori inadempienti furono denominati nel modo più vario: fugitivi, perché cercavano di sottrarsi con la fuga alla dura sorte che li attendeva; cessantes, perché sospendevano i pagamenti; rupti o rumpentes, perché rompevano la fede data; falliti o fallentes, perché venivano meno agli obblighi assunti.
Dell’ulteriore voce decoctus o decoctor, predominante nel linguaggio dei giuristi e del foro, è assai interessante l’etimologia.
Affermò Cuzzeri: “la definizione del fallimento data dal nostro Codice è in armonia con la etimologia della voce “fallimento”, che deriva da fallere, mancare. In relazione al concetto che fa consistere il fallimento nella insolvibilità, o nella insufficienza dell’attivo a coprire il passivo, sarebbe invece la voce “decotto - decoctor” poiché, come dice Stracca, (De decoctoribus, II, part. nu. 2), “decoctor descendit a verbo decoquo”, e, come scrive Rocco (De decoctione, nota 3, nu. 2), “dicitur decoctus quia substantiam suam consumit sicut ignis paulatim coquendo diminuit”.[4]
“Decoquere”  è pertanto l’agire del debitore che consuma il proprio patrimonio a detrimento degli obblighi che ha verso i creditori, dissipandolo, in modo più o meno lento, ma sempre occulto.
Alle dotte denominazioni degli insolvibili, usate da legislatori e giureconsulti, il popolo contrappose la propria, più realistica, definendoli “bancha ruptos” o “bancham ruptam facientes”. E’ infatti fondata opinione che bancarotta e l’omonimo reato, semplice od aggravato, traggano origine dall’usanza di spezzare, in caso di fallimento, il banco tenuto dai commercianti nella piazza della città, in segno di pubblica infamia e di generale condanna. A questa si aggiunse talvolta la pena corporale della plumbatura, percosse inferte con una verga di piombo.[5]

3. La dottrina, costretta a svilupparsi in un siffatto ambiente, (il quale, oltre tutto, era permeato dalla massima del diritto canonico “negotiantes, intendentes principaliter ad lucrum, eiciuntur de Regno Paradisi”), vi si adattò completamente e confermò la fondatezza delle norme del “jus decemvirale”, per cui gli insolventi, senza alcuna distinzione, dovevano essere posti in balìa dei creditori affinchè ne spartissero tra di loro le membra.
Essa, fondata sul sillogismo “e insolvente, quindi è reo di frode”, è tutta compendiata nella celebre invettiva di Baldo, che insegnò: “falliti sunt infami et infamissimi, et more antiquissimae legis deberent tradi creditoribus laniandi .. nec excusantur ob adversam fortunam; est decoctor, ergo fraudator”.[6] 
Non desta quindi stupore che la decozione fosse contrassegnata da forme di infamia, pubbliche ed ignominiose, in confronto alle quali la catomidiazione adrianea appare un innocuo passatempo.
I decottori, con indosso soltanto una camicia, venivano trascinati, talvolta legati alla coda di un asino, nella piazza del mercato, ove erano costretti a percuotere con le natiche nude una pietra (“lapis vituperii”, o pietra del bando) gridando: “bonis meis renuncio”; “in publica concione, superpetram ubi concionatur, debet ibi dare ter de culo super lapidem ipsam seu petram in camixia”.[7] Per di più gli insolventi, per tutto il resto della vita, dovevano portare un particolare cappello o berretto di colore verde.
Mentre di questo copricapo è ormai svanito il ricordo, ancora oggi, nel linguaggio corrente e dialettale, l’espressione “battere il culo” è sinonimo di fallimento.
Per quanto concerne la Romagna, Antonio Morri, nel suo ponderoso vocabolario, alla voce ‘falì”, scrisse: “Fallire. Termine mercantile. Dicesi di chi, mancando di pagare ai debiti tempi, si dichiara di non potere. Dar del culo in sul petrone, o in sul lastrone. Far Fillide mia. Fallito, decotto, decottore”.[8]
Conferma Quondamatteo: “bat e cul (o bat e cul ma tera): fallire, andare gambe all’aria”.[9]
La riferita, drastica dottrina di Baldo (n. 1320 - m. 1389), generalmente accolta con ogni plauso dai giureconsulti contemporanei, ripetuta e commentata, senza contraddizione alcuna, dagli scrittori posteriori, fu posta a base e fondamento delle leggi emanate fin oltre il XVI secolo.
Così le costituzioni milanesi del 1541 punirono i decottori dolosi alla stregua dei rei di ribellione ed anzi, ispirandosi ad un maggior rigore, comminarono la pena di morte o della galera a vita per colui che, entro il termine di tre mesi, non avesse stipulato il concordato con i creditori.
Nello Stato della Chiesa una Bolla del 1570 del Papa Pio V equiparò gli insolventi ai ladri ed ai grassatori e, come tali, li punì con pene afflittive fino alla morte.
Nel Regno di Napoli la “Prammatica de nummulariis”, emanata nel 1536 (più volte confermata, ampliata, integrata nel 1666, 1744, 1772, fino a comprendere, oltre ai banchieri, tutti i negozianti ed i mercanti, i loro soci, i complici ed i favoreggiatori), prescrisse per i falliti le pene della “fuoijudica” e della morte.
Giunti a questo punto, occorre dire “sed de hoc satis”, anche e soprattutto allo scopo di evitare continue ripetizioni. In estrema sintesi, può concludersi affermando che tale sistema si protrasse fino a che venne spazzato via, definitivamente e per sempre, dalla rivoluzione francese.

Note
[1] Aulus Gellius. Auli Gellii Noctium Atticarum Opus, editio Lugduni MDXXXIX, liber XX, cap. I, nu. 46, pag. 523.

[2] Titus Livius, Historiarum quod extat, editio Amsterdolami MDCLXXIX, liber VIII, cap. XXVIII, pag. 529.

[3] F. Milone, Il concorso o il fallimento: studio di legislazione comparata, Bologna 1882, pag. 17.

[4] E. Cuzzeri, Del Fallimento, Torino 1927, pag. 13, nota 4.

[5] B. Straccha, De Mercatura seu mercatore tractatus, editio Venetiis MDLIII, tit. de conturbatoribus et decoctoribus, c. 172, part. VIII, cap. II, nu. 6.

[6]Baldus, Opera omnia super varias partes iuris romani, editio Venetiis MDXCV Consiliorum, vol. V, cons. 399, nu. 3.

[7]Baldus, Opera omnia super varias partes iuris romani, editio Venetiis MDXCV Consiliorum, vol. V, cons. 399, nu. 3.

[8] A. Morri, Vocabolario Romagnolo - Italiano, Faenza 1840, sub voce “fali”, pag. 310.

[9] G. Quondamatteo, Tremila modi di dire dialettali in Romagna, Imola 1973, volume primo, lettera C, pag. 47.