LEGGE & LETTERATURA

  Lo Spirito delle Leggi
    di Charles-Louis de Secondat de Montesquieu 

                           (Castello di La Brède 18.01.1689-10.02.1755 Parigi)

Sul finire del 1748 veniva pubblicato a Ginevra, ad opera di Barillot et Fils, Lo Spirito delle Leggi, la monumentale
opera alla quale Montesquieu aveva dedicato vent’anni di lavoro teorizzando sulle tre forme di governo (il
repubblicano, il monarchico ed il dispotico) e sulla divisione dei poteri pubblici (il legislativo, l’esecutivo ed il
giudiziario). Per quest’opera, tra le più autorevoli dell’illuminismo, Montesquieu subì elogi ed attacchi. Da una
parte venne assai apprezzata la sua costruzione di una società in cui i doveri dei principi e dei sudditi erano
reciproci ed in cui sacre erano l’autorità legittima ed il rispetto delle leggi. Dall’altra, ad esempio, Voltaire gli
rimproverava il gran numero di errori storici e citazioni sbagliate mentre Helvetius gli addebitava di aver concepito
una serie di poteri intermedi rispetto al re che dovevano fungere da "bilance" complicando così la vita politica e
dividendo le classi anziché unirle. Ma il massimo delle critiche Montesquieu lo subì ad opera del Santo Uffizio che
stigmatizzò la capacità innovativa de L’Esprit des Lois mettendo l’opera all’indice in data 29 novembre 1751 sotto
papa Benedetto XIV, nonostante ogni tentativo dell’autore di evitare la condanna promettendo ritrattazioni che
invero, non fece mai, e professandosi un giureconsulto francese la cui opera di diritto non poteva essere sottoposta
al giudizio dei teologi. Anche la Sorbona deliberò una censura dell’opera, ma la morte di Montesquieu
sopravvenne prima che venisse pubblicata.

Proponiamo alla lettura uno dei capitoli fondamentali dell’opera, laddove l’autore inizia a trattare della natura
delle tre forme di governo che successivamente analizzerà in ben trentuno libri che si concludono con "La difesa
dello spirito delle leggi".

                                        LIBRO SECONDO

          DELLE LEGGI CHE DERIVANO DIRETTAMENTE DALLA NATURA DEL GOVERNO

                                        CAPITOLO PRIMO

                                  Della natura dei tre diversi governi

Vi sono tre specie di governi: il REPUBBLICANO, il MONARCHICO e il DISPOTICO. Per scoprirne la natura
basta l’idea che ne hanno gli uomini meno istruiti. Io suppongo tre definizioni, o meglio tre situazioni di fatto: che il
governo repubblicano è quello in cui tutto il popolo, o soltanto una parte del popolo detiene il potere sovrano; il
monarchico, quello in cui governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,
senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello che chiamo la natura di
ogni governo. Bisogna vedere quali sono le leggi che scaturiscono da questa natura, e che, in conseguenza, sono le
prime leggi fondamentali.

                                      CAPITOLO SECONDO

                      Del governo repubblicano e delle leggi relative alla democrazia

Quando, nella repubblica, il popolo in corpo ha il potere sovrano, ci troviamo di una "democrazia". Quando il potere
sovrano è nelle mani di una parte del popolo, questa situazione si chiama "aristocrazia". Il popolo, nella
democrazia, è, sotto certi aspetti, il monarca; sotto certi altri il suddito.

Non può essere monarca se non per i suoi suffragi che sono la sua volontà. La volontà del sovrano è il sovrano
stesso. Le leggi che stabiliscono il diritto di voto sono dunque fondamentali in questo governo. Infatti, stabilire
come, da parte di chi, a chi e su che cosa devono essere dati i suffragi, è altrettanto importante che, in una
monarchia, sapere chi è il monarca e in qual modo deve governare.

Dice Libanio che in Atene uno straniero che si fosse immischiato nell’assemblea del popolo era punto con la morte.
Il fatto è che un uomo siffatto usurpava il diritto di sovranità.

E’ essenziale fissare il numero dei cittadini che devono formare le assemblee; senza di che si potrebbe non sapere
se ha parlato il popolo o solamente una parte del popolo. A Sparta si richiedevano diecimila cittadini. A Roma, nata
piccola per arrivare alla grandezza; a Roma, destinata a conoscere tutte le vicissitudini della sorte: a Roma, che
aveva talvolta quasi tutti i suoi cittadini fuori delle mura e talvolta tutta l’Italia e una parte della terra entro le mura,
questo numero non era stato fissato e fu questa una delle cause principali della sua rovina.

Il popolo che detiene il potere sovrano deve fare direttamente tutto quello che è in grado di fare bene; e quello che
non è in grado di fare bene è necessario che lo faccia per mezzo dei suoi ministri.

I ministri non sono suoi se non è lui che li nomina: è dunque un principio fondamentale di questo governo che il
popolo nomini i suoi ministri, vale a dire i suoi magistrati.

Al pari dei monarchi, ed anche di più, il popolo ha bisogno di essere guidato da un consiglio, o senato. Ma perché il
popolo vi abbia fiducia, bisogna che ne elegga i membri; sia che li scelga lui stesso, come in Atene, sia che li scelga
per mezzo di qualche magistrato stabilito per eleggerli, come si praticava a Roma in alcune occasioni.

Il popolo è ammirevole nello scegliere coloro ai quali deve affidare qualche parte della propria autorità. Non ha da
decidere altro che per mezzo di cose che non può ignorare e di fatti che cadono sotto i sensi. Sa benissimo che un
uomo è stato in guerra più volte, che vi ha riportato questi e quei successi; è capacissimo, perciò, di eleggere un
generale. Sa che un giudice è zelante, che molte persone si dipartono dal suo tribunale soddisfatte di lui, che non è
mai stato convinto di corruzione: ce n’è quanto basta perché elegga un pretore. E’ stato colpito dalla magnificenza o
dalle ricchezze di un cittadino; ciò è sufficiente perché possa scegliere un edile. Tutte queste cose sono fatti di cui il
popolo s’istruisce nel foro meglio che un sovrano in una reggia. Ma saprà il popolo condurre un affare, conoscere i
luoghi, le occasioni, i momenti, profittarne? No, non lo saprà.

Se si potesse dubitare della capacità naturale che ha il popolo di discernere il merito, basterebbe dare un’occhiata a
quella serie continua di scelte stupefacenti che fecero gli Ateniesi e i Romani, e che certo non si potrebbero
attribuire al caso.

E’ noto che a Roma il popolo, quantunque si fosse arrogato il diritto d’innalzare i plebei alle cariche pubbliche, non
poteva risolversi a eleggerli; e sebbene in Atene, per la legge di Aristide, si potessero attingere i magistrati da tutte
le classi, non avvenne mai, dice Senofonte, che il basso popolo pretendesse proprio quelle che potevano interessare
la sua salvezza o la sua gloria.

Come la maggior parte dei cittadini, che hanno sufficiente capacità per eleggere, ma non ne hanno abbastanza per
essere eletti, così il popolo che ha abbastanza capacità per farsi rendere conto dell’amministrazione altrui, non è
adatto ad amministrare da sé.

Bisogna che gli affari vadano avanti, e che vadano avanti con un certo moto, né troppo lento, né troppo veloce. Ma
il popolo ha sempre troppa attività, o troppo poca. Talvolta con centomila braccia rovescia tutto, talaltra con
centomila piedi non avanza che come un insetto.

Nello Stato popolare, si divide il popolo in date classi. E’ appunto nel modo di fare questa divisione che si sono
segnalati i grandi legislatori; e da questo sono sempre dipese la durata della democrazia e la sua prosperità.

Servio Tullio seguì, nella composizione delle classi, lo spirito dell’aristocrazia. Vediamo in Tito Livio e in Dionigi di
Alicarnasso, come mise il diritto di suffragio nelle mani dei principali cittadini. Aveva diviso il popolo di Roma in
centoventitré centurie che formavano sei classi. E mettendo i ricchi, ma in minor numero, nelle prime centurie, i
meno ricchi, ma in maggior numero, nelle seguenti, gettò tutta la folla degli indigenti nell’ultima; e poiché ogni
centuria non aveva che un voto, erano i mezzi e le ricchezze che davano il suffragio, piuttosto che le persone.

Solone divise il popolo di Atene in quattro classi. Guidato dallo spirito democratico, non lo fece per stabilire quelli
che dovevano eleggere, bensì quelli che potevano essere eletti e lasciando a ciascun cittadino il diritto d’elezione,
volle che in ognuna di queste classi si potessero eleggere dei giudici, ma che soltanto dalle prime tre, nelle quali si
trovavano i cittadini agiati, si potessero prendere i ministri.

Come la divisione di coloro che hanno diritto di voto è, nella repubblica, una legge fondamentale, così la maniera di
farlo è un’altra legge fondamentale.

Il suffragio a sorte è proprio della natura della democrazia; il suffragio a scelta lo è di quella dell’aristocrazia. La
sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno; lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire
la patria.

Tuttavia, essendo di per sé un sistema difettoso, i grandi legislatori hanno cercato di sempre meglio regolarlo e
correggerlo.

Solone stabilì in Atene che si nominasse a scelta in tutti gli impieghi militari, e che i senatori e i giudici fossero eletti
a sorte. Volle che si dessero a scelta le magistrature civili che esigevano grandi spese e che le altre fossero date a
sorte. Per correggere la sorte, però, deliberò che non si potesse eleggere se non nel numero di coloro che si
presentavano: che colui che era eletto, dovesse esser esaminato dai giudici e che chiunque potesse accusarlo di
esserne indegno: tale sistema partecipava allo stesso tempo della sorte e della scelta. Scaduto il termine della
carica, il magistrato era sottoposto a un altro giudizio circa il modo con cui si era comportato. Le persone senza
capacità dovevano provare molta ripugnanza a dare il loro nome perché fosse tirato a sorte.

La legge che fissa le modalità del suffragio è un’altra legge fondamentale della democrazia. E’ un grande problema
se i suffragi debbano essere pubblici o segreti. Cicerone scrive che le leggi che li resero segreti negli ultimi tempi
della repubblica romana, furono una delle cause principali della sua caduta. Siccome ciò si pratica diversamente in
differenti repubbliche, ecco, credo, quello che conviene pensarne.

Non v’è dubbio che quando il popolo dà i suffragi, questi devono essere pubblici e ciò dice essere considerato una
legge fondamentale nella democrazia. Bisogna che il basso popolo sia illuminato dai principali cittadini, e tenuto a
freno dalla serietà di alcuni personaggi. Fu così che nella repubblica romana, col rendere segreti i suffragi, si rovinò
tutto: non fu più possibile illuminare una plebaglia che andava perdendosi. Ma quando in una aristocrazia il corpo
dei nobili dà i suffragi, o, in una democrazia, il senato, siccome non si tratta in tal caso che di impedire i brogli,. I
suffragi non potrebbero essere mai troppo segreti. 

Il broglio è pericoloso in un senato; è pericoloso in un corpo di nobili. Non lo è nel popolo, la cui natura è di agire
per passione. Negli stati in cui non ha parte al governo, il popolo si scalderà per un attore, come lo avrebbe fatto
per gli affari. La disgrazia, in una repubblica, è quando non ci sono più brogli e ciò avviene quando il popolo è stato
corrotto col denaro. Si raffredda, si affeziona all’oro, ma non si affeziona più agli affari: senza preoccuparsi del
governo e di quello che vi si propone, aspetta tranquillamente il suo salario. 

Un’altra legge fondamentale della democrazia è che solo il popolo faccia le leggi. Vi sono tuttavia mille occasioni in
cui è necessario che il senato possa deliberare; spesso anche conviene mettere in prova un a legge prima di
stabilirla. La costituzione di Roma e quella di Atene erano saggissime: i decreti del senato avevano forza di legge
per un anno; non divenivano perpetui che per volontà del popolo.

Il più esilarante discorso al popolo della storia del teatro

                                             Nerone

                          DI ETTORE PETROLINI (Roma 1886- Roma 1936)

                                         SCENA OTTAVA

EGLOGE – (entrando con un urlo di terrore) Cesaretto te vonno ammazzà! Tu sei responsabile dell’incendio.

NERONE – Io responsabile dell’incendio. No! Sono assicurato con La Fondiaria.

POPPEA – Cesare, persuadi il popolo con uno dei tuoi soliti discorsi.

NERONE – Sta bene, parlerò al popolo, ma non mi lasciate solo… venitemi a tergo… (si avvia al podio, ma le urla
improvvise lo fanno retrocedere frettolosamente) Ah, no… il popolo è ignorante… vo’ li quatrini… (ripete l’azione e
nuovamente retrocede) Ho trovato… il popolo è mio… un nume mi ha dato un lume. Eureka! Eureka! E chi se ne …
importa! L’ho in mano… Basta che lo fai divertì il popolo è tuo… (va al podio accolto nuovamente dalle urla,
rimane al podio dicendo i numeri della morra) Sette… Tre… Tutta…

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Quattro… Otto… Sei… Sei…

NERONE – Stupida… Ignobile plebaglia! Così ricompensate i sacrifici fatti per voi? Ritiratevi, dimostratevi uomini
e domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria…

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE – Grazie (rivolgendosi a Egloge e a Poppea) E’ piaciuta questa parola… pria… Il popolo quando sente le
parole difficili si affeziona… Ora gliela ridico… Più bella e più superba che pria.

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE – (sempre più affrettatamente quasi cercando di sorprendere il popolo) Più bella e più superba che pria…

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE – Più bella … grazie.

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE - … Zie.

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE – (facendo il gesto di dire la parola pria, senza però dirla)

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Bravo!

NERONE – Bravo!

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Grazie!

NERONE – Lo vedi all’urtimo com’è il popolo? Quando si abitua a dire che sei bravo, pure che nun fai gnente, sei
sempre bravo! Guarda (ripete il gesto senza dire la parola)

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Brrrrrrrrr…..

NERONE – Domani …. Domani …. Domani …. Quanti ne abbiamo …. Domani ne abbiamo …. Saranno fatte
grandi distribuzioni di vino, di olio, di pane e di sesterzi… Panem et circentibus… 

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) Panem et circenses!

NERONE – Cacchibus… C’è uno che parla bergamasco… Eccomi a voi tutto d’un pezzo… Io vi darò tutto, basta
che non domandate nulla! Il momento è difficile, l’ora è suprema, l’affare si ingrossa e… e chi la fa l’aspetta! Ed
ora, ed ora vattene diletta ciurmaglia!

VOCE DEL POPOLO – (da dentro) A morte! A morte! (tutti rientrano disponendosi a quadro)

NERONE – A morte!