Bomarzo ed il suo bosco sacro  

               

Dai Monti Cimini scende un altopiano boscoso, ricco di acque e di improvvisi valloni che si arresta in vista del Tevere. Nella seconda metà del '500, in questo territorio, nasce una costellazione di "meraviglie": Caprarola, Bagnaia, Bomarzo. Sono feudatari o ecclesiastici illuminati che vogliono testimoniare le sapienze neoplatoniche ed ermetiche attraverso misure pitagoriche di cortili e palazzi, simbologie alchemiche di altorilievi, misteriosi oroscopi, dipinti enigmatici, giardini stupefacenti. È la fine del Rinascimento dove natura e arte, letteratura, filosofia, magia, astrologia e religione raggiungono una sintesi epocale. Questo il contesto culturale in cui dobbiamo immergerci per diradare un mistero fitto e intrigante, così vicino geograficamente e così lontano nel tempo da meritare uno speciale approfondimento: “Bomarzo e il parco dei mostri”, recitano le guide, ma noi diremo: “Bomarzo e il suo Bosco Sacro”.

Il percorso che vi proponiamo non sarà descrittivo, perché il parco è ampiamente visitabile,  ma intessuto di tutti i riferimenti per tentarne una diversa conoscenza affinché: "Ognuno vidi ciò che cerca e tutti vi si smarriscono".

Per antica legge, i segreti sono più nascosti là dove sono più manifesti. E l'architetto Giuseppe Maiorano sembra proprio incarnare la figura dello studioso che, al di là degli schemi palesi, è in grado di formulare una diversa ipotesi di lettura là dove agli altri tutto sembra solare ed evidente.

Insomma lui ipotizza, e in questa intervista esplicita la sua tesi, che Bomarzo non sia solo il costoso capriccio di un nobile, Vicino Orsini, da ritenere stravagante, immerso in dottrine ermetico-esoteriche, vero uomo del Rinascimento, ma sia la parte monumentale di un antico sito etrusco, il Fanum Voltumne. Dunque i "mostri" di pietra sarebbero le poche, residue statue epigee etrusche, lascito prezioso di una civiltà ormai scomparsa e riassorbita in quella romana.

L'architetto Maiorano, più che un uomo del 2000, sembra uscito da un dagherrotipo del primo Novecento, campano di nascita, veneziano di adozione, colto e cosmopolita, assomiglia alla figura dello studioso alla Warburg, un erudito che si confronta con archeologi, storici e colleghi architetti. Un libero pensatore che riesce ad estendere le sue conoscenze tecniche e ad arricchirle di note filologiche, etimologiche, letterarie e che persegue la ricerca puntigliosa in biblioteca senza disdegnare il sopralluogo nei territori più accidentati.

Un piacere per noi incontrare questo pacato signore, taccuini alla mano, disegni,  rilievi e tomi sotto il braccio, che con calma ci illustra tesi così ardite ed eversive. L'architetto Maiorano "porta" comunque i suoi risultati alla collettività e si prodiga in ogni modo per instillare dubbi e proporre tesi alternative.

 

Architetto qual è stata la scintilla che ha fatto muovere i primi passi alla sua ricerca?

 

"È stato un bò, un grande bò. Mio zio sapeva che in quel momento stavo lavorando su alcuni toponimi che contengono il “Bo…” : “Biel Bo” in Svezia, “Monte Bo” nel biellese, “Bo-ario” in Valcamonica. Tutti luoghi con rocce riccamente graffite,  ricche di testimonianze di arte rupestre protostorica. Così venne fuori anche “Bo-marzo”. Scoprii che, nel territorio circostante il parco, esisteva una vasta area sacrale non solo con presenza di necropoli, ma anche con molti massi-altari e con pietre che presentavano tracce di scanalature, canaline e fossette circolari destinate, probabilmente, a pratiche sacrificali.

Misi in relazione i misteriosi massi graffiti sparsi nel bosco con le mostruose creature di pietra attribuite al Duca Vicino Orsini e cominciai la mia ricerca.

Mi chiesi se fosse stato possibile che un uomo, anche se vitale e geniale, un solo uomo e, tra l'altro, isolato e provato come Vicino Orsini, potesse aver concepito e realizzato, per costi, mezzi e impiego di manodopera, una simile e monumentale opera.

 

 

 

Ma chi era Vicino Orsini?

 

 I dati ufficiali raccontano che Vicino Orsini era un nobile dal piglio aristocratico ed anticonformista. Dopo aver ereditato il feudo di Bomarzo, partecipò a varie campagne nelle milizie papali, non sempre con grande fortuna. Al suo rientro in Italia seguì un volontario ritiro in campagna che assunse, nel tempo, quasi il significato di una scelta filosofica. Per quasi trent'anni egli si dedicò al lavoro nel suo diletto “boschetto”, l’attuale “Parco dei Mostri”, perché, stando alle sue parole: "Io amo più starmene in questi boschi che immerso nella fallace et ambizione delle corti, et massima in quella di Roma". Insomma, dalle fonti ufficiali, sembra lui l'indiscusso ideatore e realizzatore del giardino, tanto che le sue lettere parlano solo di scalpellini o di marmorari come Simone Moschino e Mastro Bernardino, figure, tutto sommato, secondarie che egli, tuttavia, si affrettava a raccomandare ai suoi amici.

Mi si affacciò l'idea che, forse, in questa fase così riservata della sua vita, egli avesse fatto un inventario delle sue proprietà ed anche accurati sopralluoghi, nel corso dei quali poteva aver trovato, con le statue in peperino nel bosco di Bomarzo, qualcosa di straordinario, il suo più grande tesoro, scegliendo per esso la via del silenzio secondo la regola della tradizione ermetica alla cui dottrina egli si ispirava. Infatti egli siglò le opere con una rosa dai cinque petali che è anche, guarda caso, lo stemma della famiglia e l'anagramma di orsa (la verità si dice: “sub-rosa”). In tal modo egli cercò di confondere le tracce di questi ritrovamenti nella maniera più sicura, cioè mostrandoli a tutti quale eccentrico giardino di un altrettanto stravagante padrone. In definitiva ritengo che Vicino Orsini fece rielaborare e ripulire le statue che io sostengo siano di origine probabilmente etrusca e, in tale intento, in alcuni casi, addirittura, le colorò.

Riadattando i gradoni discendenti delle balze tufacee, egli creò un percorso definibile “ameno e curioso” per tanti, ma in realtà iniziatico per pochi, seminando frasi ed enigmi, nascondendo prove, evidenziandone altre, coltivando stranezze e meraviglie per un giardino segreto e particolare, inventato in modo da sfuggire agli insulti del tempo e capace di costituire luogo di sicuro rifugio dove trovare se stessi.

Così, tra vero e falso, si innesta un gioco perverso in cui la mente debole si perde e quella più sottile e speculativa si affina. Infatti: "Tu ch'entri qua, pon mente parte a parte, et dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte" recitano le sfingi all'ingresso della balza inferiore. Riguardate globalmente, tutte le iscrizioni presenti nel Parco costituiscono come una seconda lettura del giardino e del bosco, ma Vicino Orsini, altro dato fondamentale, nei suoi scritti e nelle sue lettere non parla mai di giardino ma sempre di “boschetto”, e lui si definisce: "Cittadin de boschi come son io".

A conferma della mia tesi sull’origine probabilmente etrusca delle statue, posso precisare che alcuni caratteri alfabetici etruschi sono ancora visibili incisi sugli elementi scultorei del parco come, per esempio, sulla zampa dell'elefante punico da guerra e sulla statua del Nettuno.

 

Perché si può presupporre che quel luogo fosse particolarmente importante per gli Etruschi?

 

Ribadisco che tutto il territorio di Bomarzo presenta tracce di culti addirittura antichissimi. È ipotizzabile, dunque, che quel luogo avesse una destinazione sacrale già all'alba della nostra civiltà. Anche gli Etruschi rispettavano, onoravano e praticavano il lucus, cioè il bosco sacro. Sappiamo che esisteva questo Fanum Voltumnae, massimo santuario della civiltà degli àuguri, che era centro di riunioni delle genti di nazionalità etrusca sparse in Italia e, una volta l'anno, vi si teneva un concilio dei rappresentati delle città-stato. Queste assemblee erano anche occasioni di giochi, feste religiose nonché di atti politici e amministrativi di fondamentale importanza come l'elezione del re dei Lucumoni: lo Zilath, massima carica politica e religiosa etrusca. Nel 285 a. C. il Fanum venne distrutto e tutte le statue gigantesche di bronzo furono smontate e deportate a Roma. Quale atto di suprema profanazione, con quel bronzo sacro si coniò vile moneta (aeris rude). Di questo sacro bosco rimase la natura nascosta, i corsi d'acqua, le cascate, le grotte e la foresta di querce, lecci e roverelle. Forse le statue vennero ripristinate, sgrossandole nella pietra locale, affinché non potesse più verificarsi il sacrilegio del loro asporto.

Certo stiamo facendo dei grandi salti temporali, ma d'altronde tutta la storia, dove non esistono documenti, è paziente rinvenimento di labili tracce e ricomposizione di un mosaico dalle tessere sparse. Comunque Virgilio riferisce, nell'VIII libro dell'Eneide, che l'eroe troiano, giunto sull'italico suolo, venne ricevuto dal re etrusco Evandro e l'incontro dei due leader avvenne presso l'antico altare eretto nel bosco sacro, a ricordo della vittoria di Ercole su Caco. E questo episodio, come sappiamo, è ben commemorato tra i “mostri” di Bomarzo.

Procedendo anche con l'aiuto delle testimonianze letterarie, che comunque fotografano la realtà del tempo,  eccoci con un altro balzo in avanti a Dante che ha, a mio avviso, ambientato i primi canti dell'Inferno proprio nel luogo etrusco di Bomarzo, il che consente di avere ulteriori prove dell'esistenza di un complesso monumentale, celebre sia per il terribile aspetto che per i significati, prima dell’intervento di Vicino Orsini.

 

 

Lei ci sta dicendo che la selva oscura di Dante potrebbe essere il bosco sacro di Bomarzo visitato o almeno conosciuto dal sommo poeta?

 

Certo. Iniziamo a vedere il perché. Nel poema si potrebbero ravvisare alcune descrizioni identificabili con il teatro romano di Ferento (la città di Dite), i sarcofagi (gli avelli), una torre, il torrente dell'Acqua Rossa (il fiume infernale Flegetonte), le sponde rocciose di una valle che per lunghezza e larghezza potrebbe corrispondere alla Valle delle Vezze. È possibile che Dante abbia composto i primi sette canti dell'Inferno prima dell'esilio, e cioè dal 1300 al 1302, ed è anche probabile che egli abbia descritto, con il realismo che contraddistingue la prima cantica, un suo viaggio reale verso la Roma del Giubileo di Bonifacio VIII°.

Inoltre alcune descrizioni e rappresentazioni del mondo degli inferi sono da considerarsi punti di avvio per un originale raffronto tra le creazioni di Bomarzo e l'inferno dantesco. Tra il “bosco sacro” e la “selva oscura” troviamo un impressionate corrispondenza. Altrettanto può dirsi di alcuni personaggi danteschi come quelli dei due giganti Nembrot e Fialte, collocati nel XXXI canto dell'Inferno, nei quali potrebbero riconoscersi, rispettivamente, la scultura del Nettuno e quella dell'Ercole del “Parco dei Mostri”, sia per il loro aspetto, che per le misure riportate nel testo. Anche le indicazione topografiche, astronomiche e i dettagli naturalistici assumono nuovi significati alla luce di questa ipotesi che non è meramente suggestiva, ma, se adeguatamente approfondita, consentirebbe di recuperare alla realtà elementi trasfigurati dall'allegoria poetica e generalmente sottovalutati nella esegesi del poema dantesco.

 

Dunque arriviamo al Duca Vicino Orsini che probabilmente rielaborò le preesistenze archeologiche.

 

Tutto questo conferma la permanenza della sacralità del sito su cui sorge Bomarzo.

Certo abbiamo ribaltato la questione e il punto di arrivo è diventato punto di partenza. È chiaro che il nostro Duca è affezionatissimo al suo sito e non fa che: "…far racconciare le fontane del mio boschetto” (1563) al quale ha dedicato più di trent'anni della sua vita, destando meraviglia nei contemporanei e nei posteri. Ma che non sia tutta opera sua lo si può rilevare anche da un altro dato: la difformità di stili nelle sculture di pietra. Pensiamo solo che all’epoca di Vicino Orasini si va verso il Manierismo, mentre i mostri sono sbozzati, semplicemente primitivi, fuori scala e con rese grossolane, assolutamente diversi dai canoni estetici del tempo.

Si è sempre creduto che il giardino delle meraviglie abbia influenzato la creazione dei giardini della stessa epoca, ma non è così. Il  boschetto è unico, secondo me, perché è unico il posto dove sorge e nessuna finzione riesce a rievocare la particolare atmosfera che si respira a Bomarzo.

D'altronde una certa aura,  il luogo la emana, se pensiamo che il prof. Arnaldo Bruschi così scriveva nel 1955: "Raramente le caratteristiche di un popolo e quelle della terra in cui questo vive sono così intimamente legate come nella Tuscia............. il paesaggio, le rocce, gli alberi e la campagna, l'aria stessa ne sono impregnati. Una porta sembra essere aperta con l'aldilà.

 

Dunque secondo Lei il Parco dei Mostri non è stato un modello?

 

Si e no. Bomarzo è stato un modello di riferimento ma lo è ancora prima dell'inizio dei lavori di ristrutturazione ispirati da Vicino Orsini, tant'è vero che in una lettera dello stesso Orsini, indirizzata al cardinale Alessandro Farnese e datata 22 aprile 1561, egli denuncia il morboso interesse di molti curiosi che vengono a visitare le "meraviglie" del bosco in un'epoca in cui, secondo la ricostruzione cronologica di molti studiosi, dei lavori nel bosco e nelle balze sottostanti la dimora di Vicino, non era stato ancora realizzato quasi nulla che potesse essere definito “meraviglioso” o “curioso”, cioè il progetto orsiniano era appena agli inizi.

 

Il Parco sarebbe quindi un libro di pietra ancora aperto, che riesce a comunicare qualcosa di nuovo al mondo di oggi?

 

Le mie ipotesi, in realtà, vogliono sollecitare ulteriori approfondimenti, studi ed anche una tutela artistica più adatta. Bomarzo è proprietà privata. La sua popolarità è grande e da tutto il mondo arrivano comitive, turisti, visitatori. Oltre ai normali rischi legati al depauperamento dei beni artistici e monumentali, qui c'è il rischio di perdere per sempre la possibilità di scoprire la vera origine dei Mostri di Bomarzo. Occorrerebbe, a mio parere, aprire una campagna di studio specificamente dedicata a verificare l’epoca di creazione delle statue e la loro capacità di ispirare la vita artistica successiva alla loro scultura, ma il tempo che passa e la fruizione turistica rischiano di cancellare le tracce della loro origine......... lo spessore della verità è sottile come la polvere che lo ricopre.

 

Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" aprile giugno 1999