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La vendita giudiziale dei beni indivisi

 
 

Nel patrimonio del debitore possono rinvenirsi beni non di sua intera proprietà, ma in comproprietà con altri, sia perché così acquistati sin dall’origine, ad esempio un gruppo di amici, sia perché pervenuti in eredità con altri coeredi, sia perché così è previsto dalla legge, come nel caso del regime di comunione legale tra i coniugi. La comproprietà determina il formarsi in capo a ciascuno dei partecipanti alla comunione di un diritto di proprietà sull’intero bene non esattamente definito, ma esteso a tutte le utilità che il bene può dare, da fruirsi nei limiti in cui un identico diritto possa essere esercitato dagli altri partecipanti alla comunione. Si parla, quindi, di una comunione corrispondente ad una quota ideale del potere che si può esercitare sul bene e che corrisponde alla percentuale da attribuirsi in caso di divisione. Le caratteristiche principali della comunione per quote sono la possibilità di vendita, la possibilità di essere oggetto di espropriazione da parte del creditore del singolo partecipante alla comunione e la possibilità di chiedere la divisione del bene comune in qualsiasi momento.

Al concetto di comunione per quote si contrappone quello della “comunione a mani riunite”, tipico del diritto germanico, che esclude la libertà di vendita da parte del singolo partecipante. Alcuni autori individuano forme di questo tipo di comunione in alcuni istituti del diritto italiano, quali il patrimonio autonomo delle società di persone o delle associazioni non riconosciute, oppure il patrimonio dei coniugi in regime di comunione legale, ma non è questa la sede per addentarsi in simili disquisizioni, peraltro importantissime con riguardo al problema della soggettività giuridica del gruppo con riflessi anche sulla legittimazione in sede processuale.

Ciò che qui interessa, è l’espropriabilità della quota di comproprietà immobiliare del debitore e gli ostacoli ed i vantaggi per coloro che, a seguito di asta giudiziaria, se l’aggiudicano.

Come appena più sopra ricordato, la quota ideale di partecipazione ad una comunione immobiliare è sicuramente espropriabile: tanto prevedono gli artt. 599 e seguenti del codice di procedura civile (c.p.c.) con ciò innovando radicalmente rispetto a quanto prevedeva il codice civile del 1885 che, all’art. 2077, tassativamente vietava di assoggettare ad esecuzione un bene quando non tutti i comproprietari fossero obbligati: divieto, questo, che aveva dato luogo a non pochi abusi. Il divieto di espropriare beni immobili in comproprietà è però rimasto con riferimento a quelli appartenenti ad una società: i beni sociali, finché dura la società ed anche se al socio spetta un diritto di quota sui medesimi, non possono essere pignorati dai creditori del singolo socio e neppure la quota di partecipazione alla società può essere espropriata nelle società di persone, quelle, cioè, in cui vi è una limitata autonomia patrimoniale della società. Solo nel caso di società di capitali (S.p.A., S.r.l., S.a.p.a.), l’espropriazione può avvenire sulle quote di partecipazione o sulle azioni, ma mai direttamente sui beni sociali. Tale eccezione subisce, a sua volta, un’eccezione perché nelle cooperative neppure la quota o l’azione di partecipazione possono essere oggetto di pignoramento (art. 2531 c.c.).

Come più sopra si accennava, attualmente il creditore del singolo partecipante alla comunione può pignorare la quota di comproprietà di un bene immobile che appartiene al suo debitore e ciò sebbene non tutti i comproprietari siano obbligati verso di lui. Il rito dell’esecuzione è lo stesso dei beni di proprietà individuale e l’unica precauzione che la legge prevede è il dovere di dare avviso agli altri comproprietari dell’avvenuto pignoramento della quota di comproprietà con l’intimazione, ai comproprietari stessi, di non consentire al debitore di separare la propria quota. L’art. 188 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (d.a.c.p.c.), stabilisce poi che, con detto avviso, ovvero con altro separato atto, i comproprietari debbono essere invitati a comparire davanti al giudice dell’esecuzione : “… per sentir dare i provvedimenti indicati nell’art. 600 c.p.c..”.

Questi sono provvedimenti importantissimi anche nell’interesse dei comproprietari perché prevedono diverse possibilità alternative: la separazione in natura della quota del debitore, ovvero la divisione del bene comune, ovvero la vendita della quota indivisa nello stato in cui si trova.

 

    • La separazione della quota del debitore – Si tratta di un’attività che può avvenire solo se il tipo di bene comune la consente così come prevede l’art. 1114 c.c.. Questa norma stabilisce, infatti, che: “La divisione ha luogo in natura, se la cosa può essere comodamente divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti.”. La giurisprudenza è giunta ad affermare che è “comoda” la separazione del bene indiviso che non comporti una sensibile diminuzione del valore delle cose risultanti dall’operazione di separazione rispetto al bene comune: l’esempio tipico è quello del brillante che, seppure può essere tagliato, non darà luogo a due brillanti il cui valore, sommato, possa confrontarsi con quello dell’originario solitario. Con riferimento agli immobili, invece, si è detto che non è “comodamente” divisibile l’appartamento per il quale si debbano sostenere eccessive spese di adattamento. Infatti, un altro criterio per stabilire la “comoda divisibilità” di un bene, consiste nella perdita di utilità che il bene comune venga a subire per effetto della separazione (art. 1112 c.c.): è evidente che, se un appartamento ha solo un bagno ed una sola cucina, dividerne le stanze non permetterà ad uno dei due gruppi di vani di avere i servizi, a meno di non crearne di nuovi con tutte le difficoltà che ciò comporta per i tubi di scarico e di adduzione e l’uscita dei fumi di cottura.

 

  • La divisione del bene comune – Se non si può procedere alla separazione in natura del bene comune, si deve procedere alla sua divisione. In tal caso l’esecuzione è sospesa, ai sensi dell’art. 600 c.p.c., sinché sulla divisione stessa non sia intervenuto accordo tra le parti o pronunciata una sentenza che identifichi definitivamente la quota di proprietà del debitore sul bene originariamente comune. Una volta stabilita ed identificata questa quota, l’esecuzione riprenderà secondo il rito normale delle espropriazioni, trattandosi, ormai, solo di mettere in vendita un bene di proprietà esclusiva del debitore. Quanto sopra significa che il giudizio di divisione si svolge con una sua specifica istruttoria del tutto separata rispetto al processo esecutivo che l’ha originata il quale, a sua volta, non può proseguire per il soddisfacimento delle ragioni del creditore proprio perché ancora il bene da porre all’asta non è stato identificato. Nel giudizio di divisione si seguono le norme del codice civile le quali prevedono la possibilità che il bene comune venga venduto all’asta per poi dividere fra i compartecipi il ricavato, ovvero che il bene venga attribuito ad uno dei comproprietari il quale dovrà versare agli altri compartecipi (tra cui il debitore pignorato) una somma corrispondente al valore della quota di comproprietà. La scelta tra queste due alternative non è sempre possibile: ci sono cose che possono dare utilità solo ai partecipanti alla comunione, così che per altri non avrebbero alcun valore (ad esempio: le carte familiari) e cose utili non in se stesse, ma in funzione delle utilità di altre cose comuni (ad esempio un trave antico posto a sostegno del tetto). Nonostante tali eccezioni, peraltro rare, la divisione è lo strumento fondamentale per dividere ciò che non si può separare in natura: un cavallo si può dividere tra i compartecipi, sebbene in natura non sia possibile, o assegnandolo ad un condividente, che pagherà agli altri condividenti il corrispettivo delle rispettive quote di proprietà, ovvero vendendolo e ripartendone il ricavato tra tutti i comproprietari.

 

In tal modo, venendo al settore degli immobili che più da vicino qui interessa, l’immobile andrà all’asta nel giudizio di divisione, anziché nella procedura esecutiva, senza che l’aggiudicatario debba preoccuparsi dell’originaria provenienza perché verrà venduto il 100% della proprietà.

 

  • La vendita della quota indivisa – Se il bene comune non può essere comodamente diviso, il giudice dell’esecuzione può ordinare la vendita della quota indivisa di proprietà del debitore esecutato, come se si trattasse di un bene di sua esclusiva proprietà. E’ questo il caso che può interessare di più i partecipanti alle aste giudiziarie, non tanto per le norme del procedimento esecutivo, perché questo si svolge secondo le comuni regole delle vendite giudiziarie, quanto per il risultato dell’aggiudicazione che darà luogo ad una nuova comunione tra l’aggiudicatario e gli altri comproprietari. Infatti, una volta aggiudicata la quota indivisa, l’aggiudicatario viene a trovarsi in comunione così come vi si trovava il debitore espropriato, ma senza quei vincoli affettivi o di consanguineità che caratterizzavano la partecipazione di quest’ultimo.

In questo caso l’aggiudicatario deve sapere che potrà venire a trovarsi in rapporti difficili da gestire sul piano interpersonale, ma deve anche sapere che la soluzione di ogni conflitto è nella legge alla quale potrà rivolgersi per esercitare i suoi diritti tra i quali, vale la pena di ricordarlo, vi sono quelli già più sopra ricordati: la possibilità di rivendere la quota e quella di chiedere la divisione del bene perché non facilmente divisibile in natura. In definitiva può dirsi che, in questi casi, la convivenza tra l’originario gruppo dei comproprietari e l’aggiudicatario si fonda proprio sull’equilibrio delle facoltà rispettivamente accordate dalla legge: gli originari comproprietari sanno che, con la richiesta di divisione da parte del neoaggiudicatario, il bene comune finirà all’asta, posto che non risulterà di certo facilmente divisibile: altrimenti già nel corso dell’esecuzione a carico del comproprietario debitore, la quota sarebbe stata separata in natura, anziché finire all’asta indivisa. L’aggiudicatario, a sua volta, sa che, nel tempo delle sue decisioni (rivendita della quota o giudizio di divisione) avrà una convivenza nella proprietà probabilmente non facile e nella quale dovrà investire per consulenze legali ed interventi giudiziari di tutela.

Dal punto di vista dei comproprietari, quindi, sarà sempre preferibile intervenire a sostegno del comproprietario esecutato per evitare “infiltrazioni” di estranei al rapporto che ha dato origine alla comunione.

Dal punto di vista dell’aggiudicatario, l’acquisizione di una quota indivisa di immobili costituisce, generalmente, una discreta fonte di guadagno perché, ovviamente, il prezzo è assai conveniente per la necessità di affrontare itinerari complessi sia dal punto di vista interpersonale che dal punto di vista giudiziario onde giungere alla divisione.

Di tanto si sta evidentemente accorgendo il mercato delle aste giudiziarie che vede crescere il numero degli interessati all’acquisizione di quote indivise di comproprietà. Per il settore giudiziario è un bene, perché può offrire un’opportunità in più di soddisfazione ai creditori che, fiduciosi, si rivolgono alla giustizia. Per gli aggiudicatari è un bene perché, con un modesto investimento, rimettono in circolazione capitali fermi. Per i comproprietari del debitore esecutato è, a volte, una dura lezione perché essere “in comunione” significa condividere non solo le utilità dei beni, ma farsi carico di una gestione complessiva degli beni stessi che non può rimanere insensibile dinanzi alle vicende di un compartecipe che mettono a rischio l’integrità della comproprietà. Del resto l’antico adagio recita: “Vigilantibus jura succurrunt” che costituisce il più serio richiamo a vigilare per trovare soccorso nella legge.


Un’ultima raccomandazione si impone. La convivenza tra comproprietari e neoaggiudicatario deve essere condotta nel rispetto reciproco ed in totale assenza di vessazioni. Spesso, invece, si finisce con le denunce penali, specie quando, per accelerare le decisioni dei comproprietari, i neoaggiudicatari assumono atteggiamenti ricattatori. In questi casi la denuncia penale diventa temibilissima perché anche la partecipazione all’asta può essere considerata rientrante nel complessivo disegno estorsivo che, in tal modo, assume le caratteristiche aggravanti di una vera e propria premeditazione.

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