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TEMI ROMANA 1988 – Maurizio Calò

 
 

SULLA LEGITTIMAZIONE DELL’ALIENANTE DEL DIRITTO CONTROVERSO AD AGIRE ESECUTIVAMENTE

 

La possibilità che una parte in causa prosegua una lite già incardinata, nonostante la trasmissione a terzi del diritto controverso per atto tra vivi o mortis causa, è disciplinata dall’art.111 c.p.c. alla stregua di una eccezione al principio fondamentale di cui al precedente art. 81 secondo cui nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Infatti, una volta che i diritti su un bene trapassano ad un altro soggetto, l’alienante si trova a proseguire la vertenza non già per conseguire un diritto proprio, bensì per conseguirlo in favore di chi detto diritto abbia acquistato ed al quale è data la facoltà (non l’obbligo) di intervenire nel giudizio cosicché l’alienante, se le altre parti lo consentono, può esserne estromesso.Se ciò avviene, l’alienante prosegue la causa quale semplice “sostituto processuale” dell’acquirente come ha insegnato, tra le tante, Cass. 4 giugno 1968 n. 1687.

Tuttavia, costituendo l’art. 111 c.p.c., come sopra detto, un’eccezione al principio fondamentale di cui all’art. 81 stesso codice, ci sono dei limiti che la figura del sostituto processuale non può valicare: tra questi si discute si vi sia, in capo all’alienante, il limite di poter proseguire il giudizio solo nella fase di cognizione, senza poter, cioè, anche porre in esecuzione la sentenza.

Sulla legittimazione dell’alienante ad agire esecutivamente si rinvengono alcune significative sentenze che hanno riassunto anche la voce della più autorevole dottrina.

La più remota sul punto specifico è l’approfondita sentenza Cass. 24 gennaio 1964 n. 172, in Giur. civ., 1964, I, 1451 e Foro it., 1964, I, 1197, la cui massima testualmente recita: “In caso di vendita di immobile locato successivamente all’ordinanza di convalida di sfratto, la legittimazione a procedere ad esecuzione forzata spetta al compratore, a meno che non si sia espressamente pattuita la permanenza, nel venditore, dell’originaria qualità di locatore”.

Nella motivazione di detta sentenza si legge: “… omissis… affinché sia sostanzialmente giustificata l’esecuzione che si inizia, occorre che la legittimazione processuale hinc et inde coincida con la legittimazione sostanziale, cioè rispetto all’azione esecutiva in senso sostanziale; ed al riguardo è da rilevare che le azioni esecutive accessoriamente collegate alla titolarità di un bene o di un diritto trapassano automaticamente ad altri quando il bene o il diritto divengano oggetto di successione o trasferimento, a titolo universale o a titolo particolare, a causa di morte o per atto tra vivi.”

Successivamente si rinviene la specificissima ed assai pregevole sentenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, 20 luglio 1969, n. 40 la cui massima, tratta da Rep. Foro it., 1970, voce “Procedimento civile”, n. 122, così recita: “Verificatasi nel corso del giudizio di cognizione la successione a titolo particolare nel diritto controverso, il dante causa non è legittimato ad agire in executivis, per non essere più titolare del diritto di cui chiede l’attuazione”.

Nella motivazione di detta sentenza (pubblicata per esteso in Dir. giur., 1969, p. 842), che, citandola, sviluppa i concetti già espressi da Cass., 24 gennaio 1964 n. 172 sopra ricordata, si legge: “… omissis… stando al dettato dell’art. 111 c.p.c., si evince con certezza non solo che coliche aliena il diritto controverso perde la legittimazione piena e diretta e continua ad agire come sostituto processuale dell’acquirente, ma anche che la sostituzione opra nell’ambito del processo già iniziato, per cui con l’esaurirsi dello stesso vengono ad esaurirsi gli effetti della sostituzione con l’inevitabile conseguenza che l’alienante, perdendo la qualità di sostituto, non può più disporre di alcun titolo di legittimazione per proporre la domanda esecutiva (in tali sensi Pret. Roma, 8 giugno 1955 ord. ined.).

Di tale interpretazione dell’art. 111 c.p.c., condotta in base al criterio letterale, si evince che la legittimazione ad agire in executivis spetta unicamente al successore a titolo particolare, come solo titolare del diritto sostanziale di cui si chiede l’attuazione (in tali sensi Pret. Roma, 11 maggio 1953, in Giust. civ., 1953, I, 986).

Avverso tale tesi possono però farsi alcune obiezioni.

Ed infatti l’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c. può far sorgere qualche perplessità sull’esattezza dell’opinione su esposta. In questo comma è detto che “la sentenza pronunziata contro questi ultimi (rectius: l’alienante o il successore universale) spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui”. Si è osservato in dottrina che tra gli effetti della sentenza, di cui alla citata disposizione, devono ricomprendersi quelli esecutivi e che l’espressione “anche contro” deve essere interpretata non in senso letterale, dovendo gli effetti della sentenza operare nei riguardi del successore a titolo particolare, e non secundum eventum litis, ma sia contro che a favore; si è precisato inoltre che, operando l’esecutività sia contro che a favore del successore a titolo particolare, ed usando la disposizione di legge, l’espressione “spiega i suoi effetti” anche “contro il successore a titolo particolare”, ben possono ritenersi legittimati ad agire esecutivamente anche l’alienante ed il successore universale, a cui deve risalirsi in base a quell’anche. Se però, d’altra parte, si fa riferimento sia al chiaro tenore letterale dell’articolo in esame che usa ripetutamente la parola “contro, sia alla ratio della norma stessa, che tende non solo a tutelare e garantire la controparte nei confronti di chi nel orso del giudizio sia succeduto a titolo particolare nella res litigiosa, ma anche ad impedire, per il noto principio dell’economia processuale, che tutta l’attività precedente all’alienazione vada perduta, non può mettersi in dubbio l’esattezza della tesi che vede nel successore a titolo particolare, anche se egli non ha preso parte al giudizio di cognizione, l’unico legittimato ad agire nel processo esecutivo, e che disconosce di contro una pari legittimazione all’alienante.

Né vale, per andare in contrario avviso, obiettare che in base alla teoria dell’unicità dell’azione e del processo, il giudizio di cognizione e di esecuzione sono espressioni di un identico potere di azione e costituiscono due fasi di uno stesso processo, per cui il dante causa legittimato ad agire come sostituto nel processo di cognizione non può non ritenersi legittimato all’esecuzione: anche perché la sanzione implicita nella sentenza di condanna richiede un’ulteriore e naturale effettuazione giurisdizionale, proprio tramite il processo esecutivo.

La tesi su esposta non può però condividersi in quanto il processo esecutivo va considerato autonomo rispetto a quello di cognizione, avendo i due processi proprie caratteristiche e proprie finalità. Questa opinione trova conferma nell’art. 474 c.p.c., che ammettendo la possibilità di esecuzione basata su titoli stragiudiziali, mostra con palmare evidenza la non necessaria dipendenza dell’esecuzione dal giudizio di cognizione o meglio da un provvedimento di formazione giudiziale. Significativo in tali sensi è inoltre l’art. 2953 c.c., che col sottoporre l’actio iudicati ad un proprio termine prescrizionale, riconosce in modo indiscusso l’autonomia dell’azione medesima.

Considerato pertanto il processo di esecuzione come distinto ed autonomo da quello di cognizione, non può derivarne che il sostituto (dante causa) legittimato al processo di cognizione, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., debba per ciò solo considerarsi legittimato ad agire in executivis, il che, invece, i fautori della dottrina unitaria ritengono essere una conseguenza naturale ed inevitabile della loro concezione sull’azione e sul processo.

Respinte pertanto le obiezioni derivanti dal dettato dell’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c. e quelle derivanti dalla dottrina unitaria dell’azione e del processo, consegue che l’unico legittimato all’azione esecutiva deve ritenersi colui che è succeduto nel diritto controverso, anche se non ha partecipato al giudizio di cognizione, per essere lo stesso l’unico titolare del diritto sostanziale di cui viene chiesta l’attuazione (cfr. in questo senso Cass., 24 gennaio 1964 n. 172 più sopra citata). Solo costui infatti può far valere a fini esecutivi la sentenza emessa nei riguardi del dante causa, sentenza avente efficacia diretta ed immediata nella sua sfera giuridica, come è dimostrato dagli artt. 2909 c.c. e 111c.p.c. Del resto tale opinione è perfettamente in armonia con le conclusioni a cui perviene la dottrina che, basandosi su ineccepibili criteri logici e sulla funzione dell’azione esecutiva, ritiene che legittimato (attivo e passivo) dell’azione è il titolare (attivo e passivo) del rapporto giuridico accertato in un documento (titolo esecutivo); per cui la successione delle rapporto giuridico importa inevitabilmente anche la successione nell’azione esecutiva; il che è dimostrato d’altra parte dall’art. 615 c.p.c., che basa l’esistenza e la legittimità dell’azione esecutiva sull’esistenza del diritto sostanziale di cui si richiede l’attuazione.

Ulteriore conferma dell’esattezza della soluzione adottata, secondo cui nel caso di successione a titolo particolare nel corso del giudizio di cognizione, legittimato ad agire esecutivamente non è il dante causa ma l’avente causa, si trae dalle seguenti osservazioni, che in parte costituiscono uno sviluppo delle argomentazioni centrali svolte in precedenza:

  1. l’art. 111 c.p.c. prevede un caso particolare, legislativamente ammesso, di sostituzione processuale, sostituzione in genere vietata ai sensi dell’art. 81 c.p.c., per cui l’art. 111 c.p.c. non può estendersi oltre i casi in esso esplicitamente regolati;
  2. nel caso di sostituzione processuale deve ritenersi con la migliore dottrina che la cosa giudicata ha effetto unicamente nei riguardi del sostituito (nel caso in esame acquirente della cosa litigiosa) e non nei riguardi del sostituto. Questi deve essere considerato o soggetto agli effetti riflessi della sentenza, che paralizzano il suo diritto d’azione, o, come anche si sostiene, ad una semplice preclusione cui egli soggiace in quanto titolare di un interesse legittimo;
  3. il considerare legittimato anche il dante causa ad agire nel processo esecutivo importa il riconoscimento della possibilità di procedere ad esecuzione da parte di due distinti soggetti, il dante causa ed il successore a titolo particolare, con la conseguenza che il primo può agire contro la volontà del titolare effettivo del diritto sostanziale, e con modalità diverse da quelle da quest’ultimo volute; il che comporta evidenti inconvenienti anche di carattere pratico;
  4. infine anche alcune norme, se esaminate con la dovuta attenzione, stanno a dimostrare che solo il successore a titolo particolare nel diritto controverso può agire in executivis. Così l’art. 1262 c.c. detta: il “cedente deve consegnare al cessionario i documenti probatori del credito che sono in suo possesso”. Da tale norma deriva tra l’altro che “se il cedente ha visto riconosciuto con sentenza provvisoriamente esecutiva il diritto ceduto, la copia del titolo esecutivo (sentenza) eventualmente a lui rilasciata deve essere consegnata al cessionario il quale solo potrà pertanto agire in executivis…omissis…”.

Infine, assai di recente (1986), la Suprema Corte si è occupata nuovamente dell’argomento giungendo ad attribuire la legittimazione esecutiva anche all’alienante (sia pure con particolari cautele), ma occorre premettere, prima di riportare la massima, che tale pronunzia, presso il Centro Elettronico del Massimario della Cassazione, non è collegata a quella del 1964: infatti la sentenza del 1986 è data come prima di precedenti.

La massima testualmente recita: “Qualora la controversia promossa dal proprietario, per ottenere il rilascio di un immobile, prosegua, nonostante la sopravvenuta vendita del bene ad un terzo, fra le parti originarie, senza intervento né chiamata in causa dell’acquirente, la sentenza di accoglimento della domanda, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., spiega effetto anche nei confronti dell’alienante, oltre che dell’acquirente, con la conseguenza che pure il primo deve essere riconosciuto legittimato all’azione esecutiva, in qualità di sostituto processuale del secondo, fermo restando il suo obbligo di trasferire al compratore la disponibilità dell’immobile ottenuta a mezzo dell’esecuzione”.

Nella parte motiva di detta sentenza si legge: “…omissis…Uno degli effetti della sentenza è l’insorgere dell’azione esecutiva, intesa all’adeguamento, a mezzo dell’esecuzione forzata, dell’esistente realtà di fatto alla realtà giuridica accertata o costituita dalla sentenza. Azione esecutiva che sorge, rispettivamente, a favore e contro i soggetti che furono parti nel processo e nei cui confronti fu pronunciata la sentenza.

Ed allora, se l’alienante è rimesso nel processo, senza intervento o chiamata in causa dell’acquirente, e perciò quale sostituto processuale di questi in ipotesi di sentenza provvisoriamente esecutiva, o passata in giudicato, a lui favorevole, egli è titolare, pur quale sostituto processuale dell’acquirente, dell’azione esecutiva, nei confronti della controparte, originata dalla sentenza; mentre, se nel processo sono stati l’alienante e l’acquirente, producendosi gli effetti della sentenza nei confronti dell’uno e dell’altro, entrambi sono titolari dell’azione esecutiva, ed ovviamente, se l’alienante è stato estromesso dal processo, essendo stata la sentenza pronunciata nei confronti dell’acquirente, solo questi è titolare dell’azione esecutiva…omissis…”.

A dire il vero la tesi della doppia legittimazione in capo all’alienante ed all’acquirente del diritto controverso, che può addirittura cumularsi tra le due figure, non appare molto convincente per le confusioni e gli abusi che può generare, così come avvertiva il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi nelle sue considerazioni allorché ipotizzava che l’alienante potesse agire esecutivamente contro la volontà del titolare effettivo del diritto sostanziale e con modalità diverse da quelle da quest’ultimo volute oltre che, come ben può ipotizzarsi, addirittura contro l’acquirente stesso.

Anche se Cass., n. 2803/86 consente l’azione esecutiva da parte dell’alienante unicamente quale sostituto processuale dell’acquirente e con l’obbligo specifico di consegnare a quest’ultimo il bene coattivamente recuperato, sembra che l’attribuzione della legittimazione esecutiva al cedente costituisco più elemento suscettibile di produrre incertezze che non il contrario.

Evidentemente questa recentissima giurisprudenza è improntata ai criteri del massimo sviluppo dell’autonomia negoziale delle parti, che ben potrebbe prevedere l’obbligo dell’alienante di provvedere al recupero coattivo del bene da consegnarsi poi all’acquirente, ma tale principio ci sembra si scontri con l’altro, tutto di carattere pubblicistico secondo cui lo scopo dell’azione esecutiva è sostanziale e deve attribuire il diritto a che ne sia effettivamente titolare, non a che sia mero sostituto processuale in virtù di un’eccezione normativa del rito.

Per offrire la migliore soluzione al quesito, occorre previamente esaminare se le condizioni soggettive dell’esecutante, ed i suoi comportamenti, possano avere o meno rilevanza determinante ai fini dell’attribuzione della legittimazione ad agire esecutivamente.

Che le condizioni soggettive ed i comportamenti delle parti “cedente” e “cessionaria” del diritto controverso siano indifferenti nel giudizio di cognizione, lo si evince dal disposto dell’art. 111 c.p.c. il quale, però, nulla dice a proposito dell’esecuzione.

Circa le situazioni soggettive rilevanti ai fini esecutivi, il riferimento alla speciale legislazione per l’esecuzione dei provvedimenti di rilasci di immobili urbani già soggetti a locazione sembra, nella fattispecie, quanto mai pertinente: la normativa in materia vale a dimostrare quanta rilevanza possano avere le condizioni personali dell’esecutante e dei suoi familiari ai fini di un celere recupero del bene locato e non può consentirsi che l’imperativo della legge venga aggirato facendo agire esecutivamente ora l’alienante, ora l’acquirente del bene controverso, e già soggetto a locazione, a seconda di quale dei due si trovi nella situazione soggettiva più favorevole rispetto alle disposizioni vigenti.

Vi è inoltre da non trascurare il diritto dell’esecutato ad avere un contraddittorio pieno e diretto con il titolare effettivo del bene poiché, seppur è ammissibile che l’acquirente gli rimanga celato sicché si discute intorno al diritto controverso, quando dalla cognizione si passa all’esecuzione, oltre alle situazioni soggettive, anche quelle patrimoniali assumono una specifica rilevanza: si pensi infatti all’art. 96, secondo comma, c.p.c., che consente la condanna al risarcimento dei danni dell’attore o del creditore che abbia agito esecutivamente senza la normale prudenza.

E’ evidente che la “prudenza” da usare nell’esecuzione è un attributo del comportamento dell’esecutante cui non è indifferente l’esecutato, interessato, a sua volta, a conoscere, oltre che la condizione soggettiva, anche la consistenza patrimoniale dell’esecutante, per gli eventuali danni che può subire da un’esecuzione intempestiva e spregiudicata.

Non sembra conforme ai principi fondamentali del diritto, e specialmente al principio del contraddittorio inteso nella sua più ampia accezione, consentire che l’acquirente rimanga nascosto rispetto all’esecutato, dal momento che l’esecuzione avviene esclusivamente nel suo interesse, e che, pertanto, delle relative conseguenze egli deve poi rispondere direttamente e non nella sola ipotesi che la sua esistenza venga scoperta o, addirittura, non debba risponderne affatto trattandosi di colposo o doloso comportamento posto in esser da altri, il sostituto processuale, il quale agirebbe esecutivamente in piena autonomia, non quale rappresentante del sostituito.

Invero la legittimazione ad agire esecutivamente deriverebbe al cedente a titolo di “prosecuzione” di quella sostituzione processuale del cessionario consentita, in via del tutto eccezionale, dall’art. 111 c.p.c. con esplicito riferimento al solo giudizio di cognizione.

Le considerazioni che precedono conducono però inevitabilmente a concludere che l’azione esecutiva gode di piena autonomi rispetto al giudizio di cognizione e che per la prima sono rilevanti situazioni soggettive e comportamenti personali differenti rispetto al secondo: se dunque tra le due azioni sussiste una netta autonomia, l’eccezionale disposizione di cui all’art. 111 c.p.c. non può estendersi da quella di cognizione a quella esecutiva e, pertanto, la legittimazione per quest’ultima può esser attribuita solamente a colui che sia effettivo titolare del diritto da recuperare coattivamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

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