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PRIMO PIANO – GENNAIO/MARZO 99 – PAG. 6

 
 

Primo Piano


IL PORTO DI ROMA
Gabriella Belisario e Maurizio Calò

Ricostruzione del Porto di Roma eseguita da J. Blaeu (Amsterdam) in cui si notano, a destra, a protezione dell’imboccatura, il faro e la statua di Nettuno, mentre, a sinistra, il più interno bacino esagonale di stazionamento, detto erroneamente Porto di Traiano secondo l’Architetto Silenzi,  separato da un canale dal bacino più esterno detto Porto di Claudio.
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Con questa prospezione sull’antico porto di Roma, aggiungiamo alla serie dei “Primo piano” un altro dei tasselli dedicati ai rapporti dimenticati della nostra città: quelli con il Tevere e il mare che, in un lontano passato, resero Roma la prima potenza del mondo, permisero la sua esistenza e il diffondersi della sua straordinaria civiltà.
Lo faremo in compagnia dell’architetto Maurizio Silenzi, che ha ricostruito l’identità del porto, e dello scrittore Robert Graves, che attraverso le parole di Claudio ce ne racconta il come e il perché.


Da oltre cinquecento anni gli studiosi cercano di definire la conformazione del Porto di Roma (conosciuto al plurale come “porti di Claudio e di Traiano”). Una serie di coincidenze ha impedito fino ad oggi la risoluzione di quello che può essere definito come uno dei più grandi misteri archeologici; non solo, ma l’imperatore Claudio, che nel 41 d.C. ne decise la realizzazione, ha subìto, insieme al complesso urbanistico, formato dall’impianto portuale e dalla città di contesto Portus (complessivamente, di estensione pari a quella della Roma imperiale), una quasi completa, quanto incredibile sottovalutazione e “rimozione“. Insomma, un’altra Roma giace dimenticata sotto le terre alluvionali della foce del Tevere.
Con una ricerca che ha richiesto tre anni e mezzo di studio, pubblicata in questi giorni dalla Newton & Compton editori con il titolo “Il porto di Roma”, l’architetto Maurizio Silenzi (noto anche per il suo costante impegno civile in difesa dei valori tradizionali) è riuscito a ricostruire, attraverso l’individuazione dei suoi riferimenti simbolici (cosmici, territoriali e geometrici), l’affascinante ed avveniristico progetto originale del grandioso complesso urbanistico (elaborato, contrariamente a quanto ritenuto, totalmente da Claudio), sciogliendo così l’enigma della sua conformazione.
Silenzi ha viaggiato nella storia attraverso le classiche prove documentali: i brani dei classici – Livio, Polibio, Tacito, Svetonio, Plinio, Varrone – e l’analisi delle monete e delle iscrizioni, seguendo l’itinerario letterario che da Schliemann in poi conduce a buon fine le ricerche archeologiche più importanti.

Perché il problema del porto di Roma era così difficile da affrontare?
La mia fatica è un’opera della maturità, figlia di un’ampia preparazione umana e professionale. Infatti, agli approcci dell’urbanista, dell’architetto, del navigante, dell’astronomo, dello studioso di storia, del fotografo si devono aggiungere la ricerca e la rilettura di testi classici; l’osservazione critica di opere d’arte, di monete, di bassorilievi, di carte geografiche antiche; lo studio dei fenomeni idrogeologici; le letture aerofotogrammetriche e la loro elaborazione digitale, a cui si aggiunge l’analisi dei precedenti lavori e delle ipotesi sull’argomento (più di cinquanta). La precisione di reticoli, allineamenti e proporzioni geometriche scaturisce anche dall’applicazione della cosiddetta “sezione aurea”; tutto ciò ed altro ancora, mi hanno accompagnato in questo percorso di ricerca e di scoperta. L’analisi comparata e multidisciplinare ha permesso anche di precisare la localizzazione e la ricostruzione di fondamentali elementi (come ad esempio il famoso Faro) mai nemmeno intravisti, verificati con inequivocabili e spesso sbalorditivi controlli incrociati tra i quali è sopraggiunto quello dell’affresco del I sec. d.C. recentemente scoperto al Colle Oppio.

Architetto Silenzi, andiamo per  ordine: che tipo di accoglimento ha avuto il suo lavoro?
I risultati della mia ricerca hanno suscitato scalpore tra gli studiosi e gli appassionati di archeologia. Tutto è legato alla figura di Claudio che ci arriva dall’antichità un po’ sbiadita. Non bello, zoppo, balbuziente, era stato giudicato così poco pericoloso da essere sopravvissuto sino a 50 anni alle quasi quotidiane congiure di corte nella lotta alla successione della Roma postaugustea. Acclamato dai Pretoriani della Guardia del Palazzo, il giorno stesso della morte di Caligola sale al soglio imperiale, “costretto” a governare. Si propone di farlo nel rispetto delle leggi dei padri e di quei valori della Roma repubblicana che vedeva venire meno ovunque. Era uno storico erudito Claudio e voleva “servire” la città di Roma e il popolo, lasciando segni tangibili del suo passaggio.  La Sibilla Cumana, consultata anni prima quando il nostro imperatore era un semplice console, aveva sentenziato: “Tu, Claudio, darai a Roma acqua e pane d’inverno”. E la profezia maturò nella mente di un uomo che, quasi sollecitato dal volere degli dèi, già aveva realizzato opere grandiose. Due acquedotti: il primo, quello dell’acqua Claudia, lungo 46 miglia, di cui 10 su archi e il secondo del nuovo Aniene, lungo 50 miglia, di cui 15 su archi. Ma vi era ancora da risolvere la questione annosa dei rifornimenti, dei commerci e della flotta, gestita da un complesso portuale assolutamente inadeguato alle porte della città. [1]
Fino ad oggi, però, gli studiosi erano convinti che Claudio avesse solo progettato in modo grossolano un porto troppo vasto e soggetto ad un rapido insabbiamento, un esperimento urbanistico azzardato e fallimentare a cui avrebbe posto rimedio Traiano con la realizzazione del sostitutivo porto esagonale. [2]
E invece?
Con la mia ricerca ho restituito a Claudio la gloria dell’effettiva realizzazione del progetto urbanistico globale dell’antico porto imperiale di Roma (Portus Romae), compreso il bacino interno esagonale, ed ho chiarito sia la conformazione dell’impianto, sia la sua genialità compositiva ed operativa, sia il vasto complesso delle costruzioni adiacenti.

Allora torniamo indietro nel tempo. 
Com’era organizzata  questa città nella città?
A nord della foce del braccio destro del Tevere, si aprivano, come un abbraccio, due grandi moli semicircolari. Al centro, sorgeva dal mare il faro, una costruzione che poggiava su un piedistallo di granito, alzandosi poi con tre ordini di archi, dove di giorno e di notte bruciavano falò intrisi di pece, la cui luce rischiarava la notte dei naviganti e permetteva una rotta sicura verso Roma. Dobbiamo pensare che a quei tempi, accanto alle navi leggere, le triremi, maneggevoli e veloci, esistevano anche dei veri “mostri del mare”, le quadriremi e le quinqueremi, come ad esempio l’ammiraglia imperiale, senza contare le onerarie, navi capaci di trasportare molte migliaia di anfore. Le manovre richiedevano abilità e i chiari riferimenti del faro e della statua di Nettuno (vero spartitraffico che regolava la circolazione in entrata e in uscita), che permettevano alle imbarcazioni di disbrigarsi velocemente e doppiare il porto, mettendosi così al riparo per tutte le prime operazioni necessarie di attracco. Intorno sorgevano gli edifici di servizio ai primi scarichi, diciamo gli scali tecnici di merci deperibili o di schiavi. La nave poi o restava alla fonda o poteva procedere, attraverso un grande canale, verso il bacino esagonale, là dove esistevano i nodi di interscambio fluviale, i cantieri navali, le banchine di attracco stabile, i moletti per il carico e lo scarico e da dove partivano le “navette”, imbarcazioni più leggere che avrebbero risalito la corrente del Tevere per arrivare a Roma, nei suoi vari porti fluviali: Foro Boario, Ripagrande e Ripapiccola.
Molti presìdi, taverne, palazzi e magazzini, il foro olitorio, un foro vero e proprio e il tempio di Portunno corredavano il complesso portuale, che era dotato anche di un palazzo imperiale con le più belle stanze che affacciavano sulla prospettiva del porto.
Solo il bacino esterno, tanto per capirne le dimensioni, investiva un’area di mare di 3,6 kmq, pari a il Circo Massimo moltiplicato per 60. I moli prospicienti il mare avevano i basamenti in travertino e poggiavano su un fondale di almeno 10 metri.

In che misura l’urbanistica si confronta con la storia e viceversa?
Gli interventi sul territorio attraverso le opere pubbliche, non sono soltanto semplici applicazioni delle tecniche politiche. Infatti, oggi, la lettura della storia dei popoli avviene soprattutto attraverso la ricostruzione e l’interpretazione dei resti urbanistici e ogni “gestione” lascia i suoi interventi e i suoi segni. Claudio amava ripetere, per tributare onore ai “padri”, che il più grande monumento dell’antichità non fosse il Colosso di Rodi, il faro di Alessandria o le piramidi egiziane, ma la Via Appia – “maggior monumento che un popolo nobile abbia dedicato alla libertà” – perché congiunge città e genti e brulica di passeggeri, carri e masserizie, varca fiumi e supera paludi. Insomma, il suo governo realizzava opere per i cittadini, ne migliorava la vita e ne promuoveva, quasi statutariamente, il benessere economico. Claudio è un anticipatore, un uomo dalla vista lunga, sia pure travolto, nel privato, da intrighi più grandi di lui. Nerone, il suo focoso successore, mettendo il potere personale al centro dell’interesse pubblico, vanificò la grandezza dell’opera e, mentre la Domus Aurea, sua smisurata residenza, risplendeva di porpore, marmi e ori, Roma declinava, procedendo per inerzia verso la sua decadenza.

Dunque fu la necessità di approvvigionamenti costanti e sicuri, anche nella stagione invernale, una delle spinte alla costruzione di questo straordinario complesso urbanistico?
Il Tevere era la via più naturale di comunicazione e di trasporto e con la sua foce costituiva un approdo naturale. Ma questi attracchi erano precari e stagionalmente inutilizzabili. Roma, in possesso ormai di una solida marina militare (che si era formata e irrobustita con le guerre puniche e che controllava il Mediterraneo) e di una poderosa marina mercantile, doveva quotidianamente foraggiare una città che ospitava più di un milione di abitanti, una cifra enorme per l’antichità”.[3]

Dunque Roma può essere considerata una città  marinara?
La storia del porto imperiale di Roma inizia nel 41 d.C. ma questa iniziativa rappresenta il terzo e più perfezionato episodio urbanistico di una città che fin dal VII secolo a.C. era proiettata verso le comunicazioni marittime, visto che, come narra Tito Livio (Le Storie, I, 33), fu addirittura il suo quarto re Anco Marcio che, dopo aver conquistato il territorio etrusco in riva destra del Tevere fino al mare (la Silva Maesia), organizzò le saline e fondò Ostia.

Ma questa Ostia di Anco Marcio è diversa da quella  comunemente chiamata “Ostia antica”?
Questa Ostia di Anco Marcio è un altro dei grandi enigmi archeologici. Infatti, sotto la Ostia già in parte scavata, non sono state ritrovate vestigia più antiche del IV secolo a.C. (Castrum). Per vero stiamo parlando di due enigmi (la Ostia di Anco Marcio ed il porto imperiale), che abbracciano sette secoli di storia romana e che sono sepolti nell’ancor più vasto mistero della smisurata grandezza della città eterna. Incredibilmente il progetto di Claudio, ricostruito nella ricerca, collimandosi simbolicamente con una grande serie di riferimenti cosmici, territoriali e geometrici, ci suggerisce anche l’ubicazione della misteriosa Ostia di Anco Marcio.

Come possono resistere ancora oggi punti oscuri
 nella conosciutissima storia romana?
Per quanto riguarda la Ostia di Anco Marcio, gli studiosi non hanno semplicemente tenuto conto che la foce e la linea di costa del litorale romano subivano un continuo avanzamento, dovuto proprio al deposito dei materiali in sospensione trasportati dal Tevere e quindi la foce del VII secolo a.C. doveva essere ben più arretrata di quella del IV secolo; quindi la Ostia di Anco Marcio non va cercata sotto la Ostia che conosciamo, ma va cercata a monte di un avanzamento di costa di oltre 3 secoli. Per quanto riguarda invece il Porto di Roma, la complessità del progetto e la grandiosa dimensione dell’opera (l’impianto portuale e la città di contesto coprivano una superficie pari a quella della Roma imperiale) hanno paradossalmente costituito uno di quegli elementi che, insieme ad una serie di altre casualità negative, non ultima il totale impaludamento della zona, hanno concorso a creare questo altro grande mistero archeologico.

Architetto, come è riuscito a ritracciare il progetto 
originale di Claudio?
Ho usato il metodo cosiddetto “erudito”, vale a dire “studio a tavolino”, senza l’uso di scavi. Questo metodo ha potuto essere applicato perché quel progetto fu sviluppato con criteri geometrici, urbanistici, filosofici e scientifici interconnessi da una logica intellettuale tanto sofisticata e affascinante quanto effettivamente riscontrabile e quindi comunque ripercorribile; sembrerebbe trattarsi quasi di un messaggio codificato inviato nel tempo a chiunque potesse decodificarlo. Insomma, i monumenti parlano e così le pietre, se riusciamo a ripensarli con il cuore e la mente di chi li ha ideati!

La ricerca è stata confermata da numerose verifiche?
La più interessante è rappresentata dal cosiddetto “rilievo Torlonia”. Si tratta di una scultura su marmo facente parte della omonima collezione; vi troviamo rappresentata una nave romana a vela, adibita al trasporto, con imbarcate delle persone intente alle manovre nel Porto di Roma e due coniugi, forse commercianti, che probabilmente, dovendo intraprendere un viaggio di affari, commissionarono a scopo propiziatorio l’esecuzione del rilievo ad uno scultore dell’epoca. Questo bassorilievo è, per così dire, il primo esempio di istantanea fotografica. Una riproduzione finalizzata al mantenimento dimensionale e proiettivo delle presenze significative del quadro di osservazione. L’analisi del rilievo mi ha permesso di stabilire la posizione dell’osservatore, la sua altezza da terra, la conformazione, la posizione e l’altezza del faro, la conformazione, la posizione e dimensione della statua di Nettuno, la conformazione, l’orientamento e l’apertura dell’imboccatura del porto interno esagonale ed altri elementi; il tutto in un contesto di raccapricciante precisione. Non è poco per un rilievo normalmente considerato un simpatico collage di elementi casualmente messi insieme da un ingenuo esecutore. [4]

La recente, clamorosa scoperta dell’affresco al Colle Oppio di Roma, comparsa sulle prime pagine dei giornali, come entra in tutto questo?
Ad una serie di casualità negative sta facendo riscontro una serie altrettanto incredibile di casualità positive: il ritrovamento dell’affresco è una di queste. Nella mia ricerca ipotizzo, tra l’altro, che le vestigia interpretate nel 1867 da Rodolfo Lanciani come lo xenodochio del sen. Pammachio, possano essere, in realtà, la prima basilica paleocristiana dedicata ai Ss. Pietro e Paolo, quale memoria storica del loro sbarco in quel punto.  Questa ipotesi, confortata dall’interesse della Segreteria di Stato vaticana e soprattutto dai recenti scavi, durante i quali è emerso uno splendido fonte battesimale, si è vista grandemente confortata dalla provvidenziale scoperta dell’affresco del I secolo d.C. nel criptoportico sotto le terme di Traiano al Colle Oppio, che rappresenta proprio la porzione di Portus in cui si colloca il luogo del presumibile sbarco dei due Apostoli. Voglio dire che ho potuto interpretare l’immagine dell’affresco grazie agli elementi ipotizzati nella mia ricerca, che a sua volta trova nell’affresco riscontro e conferma. Tenendo conto del valore simbolico di quell’evento, sia in generale, sia in relazione ai possibili grandi significati spirituali legati al prossimo Grande Giubileo del 2000 (i primi due pellegrini cristiani venuti a Roma furono proprio i due Apostoli), ci possiamo rendere conto della provvidenzialità di quella scoperta e dell’importanza della sua interpretazione, ampiamente dimostrata nel mio libro.

Perché definisce avveniristico il progetto ricostruito?
La modernità del progetto urbanistico di Claudio potrà essere valutata da tutti, sia semplicemente prendendo visione dei disegni, così come da me ricostruiti, sia constatando che, nell’elaborazione del progetto, sono stati utilizzati elementi grafici ed architettonici che si pensavano inventati solo dalla moderna urbanistica. Ma ciò che vorrei sottolineare è la modernità del modello economico e la sua possibile attuale riutilizzazione. Claudio sostiene che una spesa smisurata può sviluppare dei ritorni economici in grado di rendere conveniente quel costo; questo è un modello economico, semplice e di facile comprensione, ma lui aggiunge dell’altro: Claudio immagina che un’opera contenente anche proiezioni etiche e simboliche, potrebbe creare, attraverso l’aggancio ai valori di riferimento originari, un’ulteriore crescita esponenziale dei ritorni economici legati al suo funzionamento (soprattutto tenendo conto che parliamo di un complesso finalizzato alla comunicazione culturale e commerciale). Io, a mia volta, desidero attualizzare questo concetto economico. Se noi evidenziamo, attraverso il recupero dell’area archeologica, le componenti simboliche di riferimento in essa contenute, otteniamo un triplice risultato: rinsaldiamo i riferimenti e le radici culturali e storiche del tessuto sociale italiano; stimoliamo la curiosità culturale e turistica sull’area; creiamo una crescita esponenziale dei ritorni economici legati alla semplice esposizione di vestigia archeologiche in cui siano riconoscibili quegli antichi valori che permisero la crescita sociale ed economica della Città eterna.

In tal modo si precisa anche meglio il perché 
della qualità marinara di Roma.
Certamente il concetto stesso di civiltà si immedesima con quello di comunicazione che, a quell’epoca, poteva concepirsi solo in un contesto marino. È quindi nel mare che vanno ricercate le radici storiche della civiltà moderna ed ecco, quindi, come la riscoperta del Porto di Roma, quale strumento della comunicazione culturale via mare, chiarisce anche il mistero di come una singola città abbia potuto così marcatamente incidere, e per così tanto tempo, nella vita e nel pensiero di tante popolazioni diverse e distanti. Appare anche con grande chiarezza il messaggio di Claudio quando, nel riferirsi alle matrici storiche e culturali del periodo repubblicano romano, individua nella convenienza della scelta etica del bene rispetto a quella del male, l’unica strada, ancora oggi percorribile, per un migliore risultato sociale ed economico.  Voglio aggiungere che Claudio può essere considerato il più antico fondatore dell’Unione europea quando, con uno splendido discorso al Senato, propose l’accesso al Senato stesso anche dei rappresentanti delle province. [5] Con questo preveggente riferimento politico, i confini dell’Europa potrebbero validamente conformarsi a quelli della originaria zona di influenza culturale romana, comprendente il contesto globale del bacino del Mediterraneo.


Da  “Il divo Claudio”- Robert Graves – Casa Editrice Corbaccio

(…) Ero partito per Ostia col proposito di ispezionare le condizioni del porto. Mi si diceva che, a causa delle difficoltà di approdo, si verificavan sempre ingenti perdite di grano all’atto dello scarico, soprattutto in tempo di burrasca. Poche città sono così mal servite come Roma dal loro porto. 
E l’intero problema del rifornimento delle granaglie – reso più che mai difficile da risolvere in seguito ai vuoti lasciati da Caligola sia nei granai sia nell’erario – richiedeva perentoriamente un mio esame accuratissimo. 
Pel momento non potei far altro che esortare gli importatori a sfidare la burrasca con tutte le loro chiatte disponibili quando arrivava un bastimento per scaricare, e promisi loro di indennizzarli delle perdite che avessero dovuto eventualmente subire; ma a me stesso promisi di non differire ulteriormente lo studio del problema, e di fornire finalmente a Roma un porto degno dell’importanza della città.
(…) Nel frattempo i miei ingegneri avevano ultimato i preventivi che li avevo incaricati di studiare circa la possibilità di fare di Ostia un porto sicuro. A prima vista, la relazione che mi presentarono era piuttosto scoraggiante; a darle retta, il lavoro richiedeva dieci anni e dieci milioni di pezzi d’oro. Ma mi imposi di considerare che, una volta compiuto, era un lavoro di durata eterna e tale da sventare per l’avvenire ogni eventuale minaccia di carestia, finché conservassimo la padronanza sull’Africa e sull’Egitto. 
Mi pareva un’ impresa degna della maestà di Roma.
Si trattava di creare un porto interno. eseguire cioè scavi considerevoli su una vasta area di terreno asciutto prima di immettervi le acque del mare e rivestire con muri in cemento le pareti risultanti dagli scavi; edificare, poi, nell’acqua, due grandi moli laterali di protezione; e creare infine, sempre nell’acqua, un enorme terrapieno, isolato fra le estremità dei due moli, così che servisse da rompiacqua durante le burrasche. Sul terrapieno si sarebbe poi potuto erigere un faro, come quello famoso di Alessandria.
(…) Dietro suggerimento di Polibio, consultai gli archivi e vi trovai un piano particolareggiato che Giulio Cesare aveva fatto elaborare dai suoi ingegneri circa un secolo avanti, relativo alla medesima impresa  Il piano antico era per molti versi somigliante al nuovo, ma il preventivo del tempo e della spesa era stato stimato – con mio enorme compiacimento – in quattro anni e quattro milioni. Pur tenendo conto del lieve aumento nel costo del materiale e della mano d’opera, giudicai tuttavia verosimile che l’impresa mi sarebbe costata circa la metà, sia in tempo, sia in denaro di quanto prevedevano i miei ingegneri. In certi particolari il piano antico, sebbene non contemplasse la creazione del terrapieno rompiacqua, era anzi – mi pareva – più conveniente del nuovo.
(…)Quando poi convocai i miei ingegneri per rivedere con loro tutta la questione, notai che si resero immediatamente conto dell’impossibilità in cui si trovavano di darmela a bere, sottovalutando, per esempio, il volume di terra che cento uomini sarebbero in grado di spostare da un sito ad un altro entro un giorno, oppure sopravvalutando il volume della roccia viva che avremmo trovato procedendo negli scavi e che avrebbe potuto ritardare lo svolgimento dei lavori. Capirono insomma che me ne intendevo quasi quanto loro, se non più. Io non svelai loro in qual modo avessi acquistato il mio sapere; lasciai che credessero che insieme con la storia avessi studiato anche l’ingegneria, e che erano bastate un paio di visite ad Ostia per rendermi padrone del problema e tirarne le mie conclusioni.
(…) Chiamai Callisto e gli comunicai le mie vedute. Alzò le braccia e voltò su gli occhi, con un fare disperato; gli dissi di non far l’attore. “Ma, Cesare – belò – dove prendiamo i denari?”.
“Dai granicultori, gaglioffo! -risposi; – procurami i nomi dei capoccia che lavorano sul mercato, e vedrò di spillarne quanto mi occorre”.
Dopo un’ora conoscevo i nomi dei sei più ricchi granicultori dell’Urbe. Li feci venire a Palazzo. Li spaventai: “I miei ingegneri mi riferiscono che avete tentato di comperarli onde ottenere che compilassero una relazione sfavorevole ai progettati lavori del porto di Ostia. Giudico deplorevole la vostra condotta. È come se cospiraste contro la vita dei vostri concittadini. Meritate di essere dati in pasto alle belve”.
I sei negarono l’accusa con lagrime e giuramenti e mi supplicarono di dir loro in qual modo volevo che mi dimostrassero la loro innocenza e fedeltà. Era appunto quello che avevo sulla punta della lingua. “Dovrete immediatamente anticiparmi un milione di pezzi d’oro per l’inizio dei lavori nel porto. Vi ripagherò tosto che la situazione finanziaria me lo permetterà”.
Si schermirono giurando che i loro patrimoni riuniti non raggiungevano nemmeno la metà di quell’importo. Ma io non mi lasciai commuovere. Diedi loro un mese di tempo, avvertendoli che se non mi avessero assecondato li avrei esiliati tutti nel Ponto. E anche più lontano. “E badate, – dissi, congedandoli -, quando sarà ultimato, il porto di Ostia sarà mio e se vorrete usarne dovrete chiedere l’autorizzazione a me. Vi consiglio adunque di star dalla mia anziché dall’altra parte. Intesi ?”. Mi versarono il denaro entro cinque giorni e i lavori cominciarono immediatamente. 
(…) Discutendo sui lavori del porto, un giorno Vitellio mi disse: “ Un governo repubblicano non può compiere lavori pubblici su così vasta scala come un governo monarchico. I più grandiosi monumenti del mondo sono stati edificati da Re e Regine. Le mura e i giardini pensili di Babilonia, il Mausoleo di Alicarnasso, le Piramidi, tu non li hai visti, ma ti assicuro che è impossibile esprimere a parole il senso di oppressione che si prova guardandoli la prima volta.”
(…) “Ci si può dire che sono enormi, (le piramidi n.d.r.), ma anche questo non vale a darcene un’idea rappresentativa, in quanto la nostra mente le paragona ai monumenti che conosciamo, come il Tempio di Augusto, che so, la Basilica Giulia. E anche la prima volta che arrivi in Egitto e le vedi da lontano, ti appaiono bianche e simili a tende e ti vien fatto di dire: “E cos’hanno di straordinario, dopo tutto? “ ma quando arrivi ai loro piedi e alzi su la testa, piccino piccino, per guardarne la sommità, provi una sensazione che in fede mia non so descrivere. Stenti a credere che siano state costruite da braccia umane.”

Si ringrazia la Casa Editrice Corbaccio per aver acconsentito alla pubblicazione dei brani tratti dal libro dal titolo originale: Claudius the God and his Wife Messalina, Copyright by The Trustees of the Robert Graves, Copyright Trust
© 1997 Casa editrice Corbaccio srl., Milano, traduzione di Carlo Coardi


Note

[1] Quali erano dunque i porti romani che funzionavano a pieno ritmo? Molti, ma tutti lontani dalla città: quelli militari di Capo Miseno (Pozzuoli) e di Classe (Ravenna), gli scali minerari di Cosa (Ansedonia) e Populonia (Golfo di Baratti), quelli commerciali di Tarquinia e Pirgi.

[2] L’attribuzione a Traiano del bacino esagonale interno del porto si basa sull’errata interpretazione di un passo di Giovenale e di una moneta celebrativa. Il Passo di Giovenale dice infatti che Traiano ristrutturò in meglio  il Porto di Augusto e non che realizzò qualcosa ex novo.

[3] Il sistema di comunicazione terrestre rispetto a quello marittimo era lento, poco efficace e antieconomico: basti pensare che una nave di media stazza trasportava l’equivalente di 375 carri ad una velocità tripla rispetto a quella terrestre. Insomma, alla fine il trasporto via terra, fatti tutti i conti, costava 64 volte di più rispetto a quello marittimo.

[4] Nel III sec. d.C. un certo Castorius, in una rudimentale cartografia, annotò la complessa rete viaria dell’Impero romano. Ritrovate nel 1500 da Conrad Pickel e riprodotte dal Peutringer, queste tavole costituiscono un’ottima base documentata relativamente aggiornata.

[5] Quale fu l’errore fatale di Sparta e Atene? Esse, potenti militarmente, tennero separati da loro i vinti considerandoli razza diversa. Il nostro fondatore Romolo, al contrario, fu così previdente da considerare molti popoli allora nemici come futuri cittadini romani 

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