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DOTTRINA – Fallimento e diritti di proprietà intellettuale – NUMERO UNICO 2000 – Pag. 28

 
 

di Marco Saverio Spolidoro – 1. Al momento della dichiarazione di fallimento, nel patrimonio del fallito si possono trovare diritti di proprietà intellettuale di cui il fallito è titolare e diritti di utilizzazione di beni immateriali di terzi.

Nel contesto di questo studio, per diritti di proprietà intellettuale e per beni immateriali intendo indicare, a soli fini descrittivi e senza alcuna implicazione dogmatica, anzitutto i diritti patrimoniali nascenti dai brevetti d’invenzione e dai brevetti per modello o disegno industriale, i segreti industriali, il know how; in secondo luogo i marchi registrati e gli altri segni distintivi non registrati, tipici ed atipici; infine i diritti patrimoniali d’autore ed i diritti connessi al diritto d’autore.

Escludo invece dalla mia trattazione i diritti di paternità sulle invenzioni e sui modelli o disegni ed i cosiddetti diritti morali di autore, che non possono essere oggetto di atti di disposizione traslativa. In sede di fallimento, questi diritti rimangono ovviamente in capo o al fallito oppure al terzo da cui il fallito abbia ricevuto il titolo in base al quale è divenuto proprietario o legittimo utilizzatore del bene immateriale cui il diritto morale si riferisce.

Come sopra si accennava, questi beni o diritti possono appartenere alla titolarità dell’imprenditore fallito oppure possono essere utilizzati dall’imprenditore fallito in base ad un titolo derivativo, costituito a favore dell’imprenditore in capo al titolare del bene immateriale o della proprietà intellettuale di cui si tratta. Mentre nel primo caso si dovranno applicare le norme della legge fallimentare relative agli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito, nel secondo caso in linea di principio verrà in considerazione la disciplina dei rapporti giuridici pendenti al momento del fallimento. Questa stessa disciplina assume rilievo anche nelle fattispecie nelle quali il fallito rivesta il ruolo di concedente nell’ambito di una licenza di uso dei beni immateriali di cui egli sia titolare o utilizzatore in base ad un titolo che consenta la concessione di sublicenze.

2. Analizzando più in dettaglio l’ipotesi in cui i beni appartengano al fallito, occorre anzitutto precisare che anche per essi vale, in linea di principio, la regola dello spossessamento per effetto della dichiarazione di fallimento. La discussione della dottrina sulla natura dei diritti di proprietà intellettuale, o più esattamente sulla possibilità di una loro classificazione fra i diritti della personalità, non significa infatti che essi, come categoria, rientrino fra i diritti strettamente personali, di cui si occupa l’art. 46 L.F. (FORMIGGINI, 1109; GHIDINI, 48; RIVOLTA, 930). A questa regola fanno eccezione i diritti di pubblicazione e di utilizzazione delle opere dell’ingegno fino a quando spettano personalmente all’autore (nel caso all’imprenditore fallito), che non possono essere oggetto di pegno, pignoramento e sequestro, né per atto contrattuale, né per via di esecuzione forzata, ai sensi dell’art. 111 L. 22 aprile 1941 n.633. Pertanto restano escluse dall’attivo fallimentare le lettere d’amore dell’imprenditore fallito alla bella attrice che l’ha condotto alla malora, per quanto si possa presumere che dalla loro pubblicazione possa trarsi un certo ricavo a favore dei creditori. Va precisato che questa disciplina non si applica alle opere inedite di cui il fallito abbia acquisito il diritto di pubblicazione da terzi, anche per via di successione universale. Inoltre è discusso se l’art. 111 L. 22/4/1941 n. 633 (L. diritto d’autore) venga in considerazione per quelle opere, come i quadri e le sculture, che “raggiungono con la loro esecuzione la natura di beni, utilizzabili senza altre elaborazioni, anche se non siano usciti dalla sfera personale dell’autore” (FORMIGGINI, 1112).

Che i diritti di proprietà intellettuale di regola facciano parte dell’attivo fallimentare è comunque ormai un’acquisizione scientificamente pacifica. Essa è stata dimostrata persuasivamente anche con specifico riferimento al caso forse più discutibile, che è quello della ditta coincidente con il nome dell’imprenditore fallito (RIVOLTA, 931). Sul punto si può notare che, indipendentemente dall’ambito di applicazione e dall’interpretazione della norma che subordina il trasferimento della ditta per atto tra vivi al consenso dell’avente diritto (art. 2565 c.c.), non ci può essere alcun dubbio sul fatto che il problema non può neppure essere posto per le imprese societarie, per le quali non si può rettamente parlare di beni strettamente personali. Anche laddove vi sia la presenza di soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali (e quindi di persone fisiche fallite per estensione del fallimento della società) il cui nome sia compreso nella ragione sociale, vale la regola secondo cui si presume che il consenso all’inserimento del proprio nome nella ragione sociale è prestato a titolo definitivo e non può essere revocato; se poi è espressamente convenuto che il consenso possa essere revocato dall’avente diritto al nome, questa convenzione potrà essere opponibile al fallimento senza che ciò logicamente implichi che il diritto alla ditta resti in capo al socio di cui si tratta come bene personale o, peggio, che il diritto stesso cada nell’attivo del fallimento personale del socio e non in quello del fallimento della società.

Trattandosi di impresa individuale, sembra possibile sostenere che, anche in tal caso, la ditta dell’imprenditore individuale fallito non costituisca bene personale del medesimo. Se lo fosse, il fallito dovrebbe poterne realizzare il valore di scambio cedendola a terzi: il che è peraltro reso impossibile dal fatto che, per il trasferimento della ditta, vale tuttora il requisito del contestuale trasferimento dell’azienda. Pertanto il fallito – non potendo disporre dell’azienda – non potrebbe validamente attribuire diritti sulla medesima a terzi. Si potrà invece discutere, e tornerò sul punto a suo tempo, se gli organi della procedura possano trasferire la ditta nell’ambito della liquidazione dell’attivo senza il consenso del fallito, il cui nome personale sia stato usato come ditta o nella ditta. Ma anche ammettendo che tale consenso sia necessario per tutelare un diritto della personalità del fallito, che in ipotesi sarebbe preminente rispetto alle finalità di recupero di valori economici a favore dei creditori dell’impresa, non v’è dubbio che il ricavato della cessione della ditta effettuata dal fallimento con il consenso del fallito sarebbe destinato al riparto, e non al fallito: fatto decisivo per concludere che si tratta appunto di un bene dell’attivo fallimentare e non di un bene personale.

A parte il caso del consenso del fallito alla cessione della ditta che comprenda il suo nome personale, sul quale come detto prenderò posizione più avanti, vi possono comunque essere delle interferenze dei diritti strettamente personali del fallito sulle possibilità di sfruttamento economico del bene caduto a far parte dell’attivo del fallimento: si pensi al diritto di inedito sulle opere dell’ingegno, al diritto all’integrità dell’opera, al diritto al ritiro dell’opera dal commercio per gravi ragioni di ordine morale. Analogamente, lo sfruttamento economico del bene immateriale rientrante nell’attivo fallimentare può risultare impedito anche quando il fallito ne abbia acquistato la titolarità da terzi che, in ipotesi, siano legittimati a fare valere propri diritti della personalità incompatibili con l’utilizzazione del bene stesso (LIMARDO, 536).

3. Pare che nella prospettiva del curatore fallimentare i diritti di proprietà intellettuale di cui il fallito sia titolare sono anzitutto elementi dell’attivo fallimentare, il cui valore – se esistente – deve essere diligentemente conservato e, in un secondo momento, realizzato nella liquidazione dell’attivo stesso (LIMARDO, 536).

A questo riguardo, è necessario riconoscere che, in fatto, il fallimento comporta per i beni immateriali e per la proprietà intellettuale del fallito dei rischi particolari (GHIDINI, 51), cui il curatore e gli organi della procedura devono saper e poter reagire – se ve ne sia il modo – con efficacia e misure adeguate. Perciò è bene comprendere quali rischi sono connessi tipicamente alle singole categorie di beni (marchi, brevetti ecc.), per poi essere in grado di valutare la situazione concreta che ciascun fallimento presenta in ordine ai temi così individuati.

4. Iniziando con i brevetti per invenzione e per modello o disegno, il fallimento del titolare non comporta di per sé un effetto negativo sull’esistenza o sulla portata economica del diritto. Certo, i brevetti hanno una durata determinata nel tempo. Di conseguenza, l’interruzione dello sfruttamento diretto da parte del titolare, che necessariamente segue alla dichiarazione di fallimento (salvo che sia stato autorizzato l’esercizio provvisorio dell’impresa), consuma la durata dell’esclusiva e riduce giorno per giorno il residuo valore d’uso e di scambio – sempre che un simile valore di fatto esista – attribuibile alla privativa. In linea di massima dovranno essere prese in considerazione con tempestività le iniziative volte a realizzare il valore di scambio del diritto, iniziative che comprendono la concessione di licenze e non solo l’alienazione a terzi del titolo (cfr. RIVOLTA, 938). Per la vendita dei brevetti si potrà applicare il 2° comma dell’art. 104 L.F.; più difficile è, invece, sostenere che si possa ricorrere all’art. 84 ult. co. della stessa legge, relativo alla vendita delle cose deteriorabili. E’ vero, e l’ho appena detto, che il valore dei brevetti decresce giorno per giorno, ma il concetto di cosa deteriorabile cui fa riferimento la disposizione dell’art. 84 L.F. non va inteso nel senso, che sarebbe troppo lato, secondo cui sarebbero soggette a deterioramento le cose che perdono anche marginalmente di utilità e di valore economico con il decorrere del tempo. La natura cautelare della vendita di cui parla l’art. 84 L.F. è resa, infatti, manifesta dalla stessa formulazione letterale e dalla sistematica della disposizione in esame, nella quale si fa cenno alla vendita subito dopo aver previsto che il Giudice Delegato possa “emettere i provvedimenti provvisori e conservativi che ritiene necessari”.

Ne deriva che il presupposto dell’applicazione dell’art. 84 deve essere apprezzato con riferimento ad una perdita importante del valore del bene, una perdita che insomma costituisca un grave pregiudizio per gli interessi da tutelare nella procedura, e sia causalmente riconducibile al tempo necessario per giungere alla vendita del bene in conformità alle disposizioni dell’art. 104 della legge. In particolare occorrerà tenere conto delle disposizioni del secondo comma della norma, che consentono di accelerare le operazioni e di procedere anche prima della dichiarazione di esecutività dello stato passivo ai sensi dell’art. 97 L.F..

5. La mancata utilizzazione del brevetto di invenzione per effetto del fallimento del titolare (e/o del licenziatario) non dà più luogo, di per sé, ad una causa di decadenza del diritto di privativa, ma costituisce il presupposto del diritto dei terzi ad ottenere una licenza obbligatoria dal titolare del diritto di brevetto.

In realtà, l’art. 54 bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (art. aggiunto dall’art.2 D.P.R. 26.2.68, n.849) dice che, in caso di mancata (o insufficiente) attuazione dell’invenzione dovuta a cause indipendenti dalla volontà del titolare o del licenziatario, non si fa luogo alla licenza obbligatoria. Resta però fermo che la mancanza di mezzi finanziari non vale a scusa della mancata o insufficiente attuazione.

L’interpretazione delle norme in materia di decadenza dei marchi registrati formulate in modo corrispondente ha dato luogo ad un certo interesse dottrinale e giurisprudenziale: si discute, in materia di marchi, se il fallimento sia una causa di mancato sfruttamento del segno dipendente o non dipendente dalla volontà del titolare (e ci si è spinti a prospettare esiti interpretativi diversi a seconda che il fallito abbia chiesto il fallimento in proprio oppure no: per es. LIMARDO, 537). Ci si è inoltre sforzati di affermare che, in caso di fallimento, la mancata utilizzazione del marchio non dipenderebbe necessariamente dalla carenza di mezzi finanziari.

Queste discussioni, sulle quali si tornerà a tempo debito, non sono invece neppure accennate rispetto al caso della licenza obbligatoria, sia per la relativa scarsa importanza pratica dell’istituto, sia perché, solitamente, i curatori ed i Giudici Delegati, cui venga rivolta la richiesta prevista dal 3° comma dell’art. 54 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, avranno maggiore interesse a trovare un accordo con il richiedente della licenza evitando il contenzioso sui presupposti della licenza. Molto spesso, poi, si tenterà di massimizzare l’incasso immediato attraverso una cessione del diritto al richiedente.

La decadenza del brevetto si ha comunque se, entro due anni dalla concessione della licenza obbligatoria, l’invenzione risulti ancora inattuata o insufficientemente attuata: in questo caso la decadenza è legata ad un fatto obiettivo, per il quale non vale la scusante del fatto indipendente dalla volontà del titolare del diritto non sfruttato (GHIDINI, 52; LIMARDO, 539, sulle orme di GHIDINI).

Per effetto del rinvio contenuto nell’art. 13 R.D. 25 agosto 1940 n.1411, le regole sulla licenza obbligatoria che si sono appena viste per i brevetti d’invenzione sono estese ai modelli di utilità. Esse non valgono invece per i modelli e disegni ornamentali, per i quali non esiste un onere di attuazione.

6. Fin qui per i brevetti già concessi. Ma cosa si deve dire delle privative in corso di domanda e per le invenzioni, i modelli e i disegni per cui non sia ancora iniziato il procedimento di brevettazione?

In generale si può osservare che spetta al curatore, con la direzione del Giudice Delegato, la decisione sulla convenienza di una eventuale prosecuzione della procedura di brevettazione iniziata dal fallito: prosecuzione che, pur essendo di per sè di ordinaria amministrazione (dunque rientrante nell’ambito d’iniziativa del curatore) può comportare costi talora non trascurabili, specie con riferimento alla possibile richiesta di estensione del titolo della privativa in altri Stati, alla eventuale necessità di reagire a rifiuti di brevettazione o alle opposizioni eventualmente promosse da concorrenti o da terzi;: nel qual caso sembra inevitabile l’autorizzazione del Giudice DElegato.

Lo stesso tipo di considerazioni vale anche per la decisione se brevettare o non brevettare un’invenzione che si trovi nel patrimonio del fallito e rispetto alla quale il fallito non abbia ancora depositato la domanda di brevetto. Il diritto al brevetto, qualunque sia la consistenza teorica di questa discussa figura, è infatti senz’altro un diritto di natura patrimoniale. E’ vero che l’inventore potrebbe avere un interesse personale o filantropico a non brevettare: ma questo interesse non trova espressione in un diritto soggettivo “morale” alla “non-brevettazione”. Dunque non ci può essere discussione sul fatto che gli organi della procedura possono richiedere il brevetto per le invenzioni o i disegni o i modelli che il fallito avrebbe potuto legittimamente depositare (FORMIGGINI, 1113; LIMARDO, 541).

Taluno ammette peraltro che il fallito conservi il potere di richiedere autonomamente la concessione della privativa, anche dopo l’intervenuto suo fallimento: e ciò a tutela dei suoi interessi morali (sul punto v. i riferimenti in FORMIGGINI, 1113). Anche ammesso che ciò corrisponda al sistema della legge, è comunque certo che i diritti nascenti da una simile brevettazione sorgerebbero in capo al fallito, ma cadrebbero – per gli aspetti economici – nella disponibilità della procedura.

Rispetto a questo tema va ancora ricordato che, in via di fatto, il fallimento aumenta il rischio di comportamenti sleali dei dipendenti dell’impresa fallita rispetto alle invenzioni di servizio (art.23, 1° comma, R.D. 29 giugno 1939 n.1127 e di azienda (art. 23, 2° comma), che appartengono al datore di lavoro, salvo l’obbligo – nel secondo caso – di riconoscere al dipendente un equo premio per la sua invenzione. Sarà dunque opportuno richiamare l’attenzione dei curatori sulla presunzione dettata dall’art. 26 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, in forza della quale si considera fatta durante il rapporto l’invenzione di cui l’ex dipendente richieda il brevetto entro un anno dalla cessazione del lavoro.

Secondo l’opinione della Cassazione, peraltro non seguita da larga parte della dottrina e da alcune pronunce di merito, il diritto all’equo premio di cui parla il 2° comma dell’art. 23 R.D. 29 giugno 1939 n.1127 sorge solo con il verificarsi della condicio juris della concessione del brevetto: qualora il curatore del fallimento decida di esercitare il diritto del fallito alla brevettazione di un’invenzione d’azienda, il credito del dipendente sorgerebbe nei confronti della massa e sarebbe soggetto al concorso. Diversamente, se la brevettazione viene vista come una semplice condizione di esegibilità del diritto all’equo premio (tesi a mio avviso preferibile) o se il diritto al premio viene ritenuto del tutto autonomo, quanto alla fase genetica, rispetto all’effettivo conseguimento della privativa, il correlativo credito del dipendente avrebbe natura concorsuale.

Per le invenzioni rientranti nel campo di applicazione dell’art. 24 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, e cioè in sostanza per le invenzioni rispetto alle quali il datore di lavoro ha solo un diritto di prelazione (rectius di opzione d’acquisto), resta ancora valida l’analisi svolta da una dottrina di più di quarant’anni or sono (FORMIGGINI, 1119 e ss.): il diritto di opzione può essere esercitato dalla massa, salvo il diritto del dipendente di ottenere il prezzo dell’invenzione. Questo prezzo dovrà essere pagato “in moneta piena”, anche qualora l’opzione sia stata esercitata prima del fallimento: lo si deduce dal fatto che, in mancanza del pagamento integrale, il dipendente potrebbe far valere i diritti concessigli dall’ultimo capoverso della norma dell’art. 24 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, così paralizzando gli effetti dell’esercizio dell’opzione a tutto danno della stessa massa fallimentare.

Ricordo che, salvo patto contrario, le disposizioni degli artt. 23, 24 e 25 R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (non quelle dell’art. 26) si applicano ai modelli di utilità (art. 3 R.D. 25 agosto 1940 n. 1411), mentre l’art. 7, 2° comma, R.D. 25 agosto 1940 n. 1411 prevede che, sempre salvo patto contrario, tutti i disegni e modelli ornamentali che siano opera di dipendenti spettino al datore di lavoro, in quanto tale opera rientri nelle mansioni del dipendente. In questo caso non è dovuto l’equo premio.

7. Riguardo ai segreti industriali ed al know how, in passato si è sostenuto che l’amministrazione fallimentare dovrebbe distinguere il know how accessorio ad invenzioni già brevettate dal segreto vero e proprio, cui sarebbe assimilabile il know how autonomo rispetto ad una tecnologia brevettata o brevettabile (LIMARDO, 539 e ss.). Secondo questa tesi nel primo caso “l’avvenuta o possibile cessione ad altro imprenditore dell’essenza fondamentale [della tecnologia brevettata: mia nota], in regime di piena liceità, consente la convenzione relativa ai segreti accessori”, con la conseguenza che “la realizzazione di un controvalore da siffatto trasferimento (inglobato o meno nella cessione dell’azienda) possa, anzi debba, essere diligentemente perseguita” (LIMARDO, 541). Invece, nell’ipotesi dei veri e propri segreti industriali autonomi, secondo questa dottrina si avrebbero maggiori complicazioni, perché “lo sfruttamento in segreto di una invenzione non brevettata non è certamente né legittimato, né conforme alla normativa vigente” (LIMARDO, 541); di conseguenza, parrebbe di capire (anche se l’A. esplicitamente non lo dice), gli organi della procedura si troverebbero nell’alternativa tra richiedere il brevetto e lasciar cadere la possibilità di realizzare il valore della tecnologia segreta.

Questa ricostruzione teorica, già difficilmente difendibile all’epoca in cui venne proposta dal suo autore, trova oggi un’espressa smentita nel nuovo art. 6 bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (introdotto nel 1996), a tenor del quale spetta al titolare di segreti aziendali, industriali e commerciali, la protezione offerta dall’azione di concorrenza sleale. Dunque non può essere vero che, per la normativa vigente lo sfruttamento di tecnologie segrete o difficilmente accessibili, che hanno per questo un valore economico, costituisce un fenomeno extra o, peggio, contra jus.

I problemi che al riguardo occorre considerare sono di altra natura: dal punto di vista pratico è ancora valida l’osservazione formulata molti anni fa (dal FORMIGGINI, 1111) circa la difficoltà di apprensione dei segreti all’attivo fallimentare, specie se per una loro efficace trasmissione a terzi aventi causa dal fallimento richieda la collaborazione personale del fallito o di altri soggetti un tempo coinvolti nell’attività produttiva dell’impresa.

Dal punto di vista dell’analisi di diritto, poi, è da verificare in che limiti il tipo di tutela accordata ai segreti dalla legge (l’azione di concorrenza sleale) eventualmente reagisca sul piano del fallimento. In primo luogo si tratta dunque di stabilire se, sussistendone le condizioni anche processuali, al curatore spetti l’azione di concorrenza sleale, nonostante la cessazione dell’attività produttiva dell’impresa: la risposta che si dà al quesito è ormai tradizionalmente nel senso che, malgrado la cessazione dell’impresa (e cioè anche quando non vi sia esercizio provvisorio) e nonostante la possibile disgregazione dell’azienda, il fallito conserva la qualità di imprenditore; inoltre sarebbe comunque ravvisabile, almeno potenzialmente, il rapporto concorrenziale. In altri termini, secondo l’opinione corrente ricorrono i presupposti astratti della fattispecie della concorrenza sleale (in tal senso già FORMIGGINI, 1127 e ss.; GHIDINI, 56).

Aggiungo dal canto mio che la violazione dei segreti dovrebbe essere uno dei casi più evidenti nei quali, come talvolta si è detto anche in giurisprudenza, il rapporto di concorrenza nasce per effetto del compimento dell’atto sleale: il che dovrebbe almeno in parte ridurre la portata del problema qui accennato.

A parte ciò, è stato sostenuto – per la verità in tempi ormai lontanissimi – che al fallito competerebbe sì l’azione di concorrenza sleale, ma solo per il risarcimento del danno e non per l’inibitoria, mancando (relativamente a quest’ultima) un interesse praticamente e giuridicamente apprezzabile dell’impresa decotta e ormai cessata (Trib. Napoli, 26 aprile 1954, in Foro pad., 1954, I, 1187 e, con solo la massima, in Riv. dir. civ., 1956, p. 1109). La tesi, peraltro, è sicuramente erronea. Essa infatti non tiene conto del valore patrimoniale che anche l’inibitoria può avere, specialmente nell’ottica di un avente causa del fallimento, che certo non può essere disposto a pagare una gran somma per un segreto del fallito il cui sfruttamento non potrebbe essere impedito de futuro, tramite l’inibitoria, a chi lo abbia violato in precedenza. Quindi non è vero che il fallimento non può avere interesse ad inibire la prosecuzione di attività di concorrenza sleale compiute ai danni dell’impresa fallita.

Infine, il fatto che, secondo l’art. 6 bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (articolo aggiunto dall’art.14 d. lgs. 19.3.96 n.198), la tutela del segreto sia data dall’azione di concorrenza sleale potrebbe indurre a sollevare il dubbio sulla natura di “bene”, in senso tecnico, del segreto industriale. Di qui potrebbe poi trarsi argomento per negarne la disponibilità in capo all’amministrazione fallimentare, quanto meno separatamente dal complesso aziendale, ecc. L’obiezione, che ripugna al senso comune, è agevolmente superabile anche senza far ricorso a (dubbie) elaborazioni dogmatiche ed astratte sulla natura del bene tutelato dalla disciplina della concorrenza sleale. Basta infatti considerare che, tra gli elementi costitutivi della fattispecie della norma qui esaminata, vi è il fatto che le informazioni protette devono “avere un valore economico in quanto segrete”: il che presuppone che le suddette informazioni possano essere scambiate in un mercato, dunque vendute o cedute contro corrispettivo, perché altrimenti non avrebbero valore.

8. Passiamo ora all’analisi dei marchi registrati, iniziando con un rilievo di fatto, che vale anche per la ditta e per tutti i segni distintivi, anche atipici, registrati o non registrati. Il valore dei segni distintivi dell’imprenditore fallito può essere ritenuto modesto, dato il discredito di cui l’impresa fallita può essersi circondata proprio a causa dell’insolvenza (per questo rilievo v. RIVOLTA, 926 e passim). Ma questo non avviene sempre o necessariamente. Spesso falliscono imprenditori che sono titolari di marchi evocativi, suggestivi, celeberrimi o rinomati: segni distintivi il cui valore economico può difficilmente essere intaccato dalle più o meno sfortunate vicende del titolare. Resta però il fatto che la notorietà ed il valore di avviamento di molti segni distintivi dipendono dall’uso e dagli investimenti pubblicitari di cui essi formano oggetto: con la cessazione dell’uno e degli altri il ricordo dei segni sbiadisce fino a svanire e con esso viene a cadere l’interesse di potenziali acquirenti del diritto. Di qui l’importanza, per gli uffici fallimentari, della valutazione della situazione di fatto e della eventuale opportunità di assicurare – magari attraverso la concessione di licenze – la continuazione dell’uso del marchio nel corso della procedura.

Tornando al profilo giuridico, con la riforma del 1992 (D. Lgs 4.12.92 n.480), è venuta meno la disposizione della legge marchi che prevedeva la decadenza del marchio registrato per effetto della cessazione definitiva dell’impresa del titolare: questa disposizione era al centro del dibattito relativo alla pretesa automatica estinzione del diritto sul marchio registrato come effetto legale della dichiarazione del fallimento del titolare della registrazione. La tesi prevalente era già nel senso che il fallimento non togliesse al titolare il diritto sul suo marchio (FORMIGGINI, 1122, salvo il caso in cui al momento del fallimento sia cessata –cioè risulti completamente disgregata – anche l’azienda; GHIDINI, 55; RIVOLTA, 942, LIMARDO, 537; giurisprudenza conforme): e ciò anzitutto per una serie di considerazioni pratiche di palese evidenza, connesse all’interesse anche pubblico di evitare che il fallimento provocasse come effetto legale la distruzione di valori realizzabili a vantaggio dei creditori e dello stesso debitore, consentendone l’appropriazione da parte dei più spregiudicati e furbi tra i concorrenti del fallito. Se poi ci si pone sul piano dell’argomentazione giuridica, questa conclusione veniva argomentata con riferimento alla possibilità dell’esercizio provvisorio dell’impresa ai sensi dell’art. 90 L.F. e con riferimento alla inerenza del segno distintivo all’azienda del fallito, la cui esistenza come complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa è un dato oggettivo, che non viene messo in forse dalla dichiarazione di fallimento.

L’allungamento dei termini della decadenza del marchio registrato per non uso (fino a cinque anni dalla registrazione del segno) rende ancor meno drammatica la questione relativa alla eventuale decadenza del segno per mancata utilizzazione del segno stesso. Anche a questo proposito dottrina e giurisprudenza prevalenti, peraltro non pacifiche (v. il quadro di MAYR, in MARCHETTI-UBERTAZZI, 1077), si dimostravano comunque di manica particolarmente larga nel valutare le questioni attinenti alla decadenza, e ciò in nome del confessato intento di favorire quanto più possibile la valorizzazione dei beni dell’attivo fallimentare, compresi i marchi registrati (v. ad es. GHIDINI, 51). Sta di fatto che il mancato uso dei marchi nel fallimento era in prevalenza considerato un mancato uso non dipendente dalla volontà del titolare, per di più non determinato dalla mancanza di mezzi finanziari. Di fatto con ciò veniva radicalmente esclusa l’applicazione dell’art. 42 R.D. 21 giugno 1942 n.929.

Con l’attuale formula dell’art. 42 R.D. 21 giugno 1942 n.929, malgrado la sostituzione della formula delle “cause indipendenti dalla volontà del titolare” con quella del “mancato uso per motivi legittimi”, la questione non ha ricevuto nuova luce, salvo che sicuramente non è più sostenibile la tesi della decadenza immediata. Per l’opinione che il fallimento non sia motivo legittimo del mancato uso, si è espressa una dottrina autorevole (SENA, 147). Ma è stata anche difesa la tesi tradizionale, secondo cui il mancato uso del marchio, da parte del fallimento, sarebbe determinato da un motivo legittimo (FAZZINI, 187). Di queste due possibili interpretazioni a me sembra da preferire la prima, giacché la seconda è fondata (a mio avviso) su un assiomatico ma in realtà indimostrato favor per le liquidazioni fallimentari. E’ ovvio che gli interessi del fallimento sono meglio protetti se i marchi possono essere venduti quando più garba ai curatori (e magari dopo anni di mancato uso). Ma questo non basta a raggiungere una conclusione in contrasto con la legge e che porterebbe ad accordare al fallimento un privilegio non previsto dalla legge.

E’ bene precisare comunque che, se il curatore non può usare il marchio direttamente (salvo in caso in cui sia autorizzato l’esercizio provvisorio), può comunque cederlo in licenza d’uso a terzi (per la dimostrazione di questa conclusione v. RIVOLTA, 938). Il non essere in grado di trovare un licenzatario non è certo un motivo legittimo del mancato uso, perché altrimenti si finirebbe per cancellare l’istituto della decadenza dell’ordinamento giuridico.

A parte ciò, trascorso il termine della decadenza, se il marchio è ancora noto il curatore può sempre realizzare il valore del segno, quanto meno come anteriorità distruttiva della novità di una successiva domanda.

9. Riguardo ai segni distintivi non registrati, la cessazione dell’uso non fa immediatamente venir meno il diritto. La tutela di questi segni distintivi è collegata alla notorietà e, in caso di cessazione dell’uso, alla potenzialità di una ripresa dell’uso da parte del titolare o di un avente causa. L’opinione più moderna è infatti nel senso che alla base della tutela dei marchi di fatto, della ditta e dell’insegna, nonché degli altri segni distintivi atipici, vi sia sempre un’azione di concorrenza sleale ai sensi del n. 1 dell’art. 2598 c.c.. Come si è già visto, il fatto che l’imprenditore sia fallito non significa che l’azione di concorrenza sleale perda i suoi presupposti: spetta al curatore, con le dovute autorizzazioni, farla valere contro eventuali usurpatori nei suoi diversi aspetti (inibitorio, restitutorio, risarcitorio). Spetta agli organi della procedura valorizzare questi beni, eventualmente consolidandone la tutela in Italia ed all’estero attraverso la registrazione come marchio oppure attraverso la concessione di licenze ad imprenditori in grado di continuare l’uso e di impedire la perdita della notorietà del segno; spetta ancora una volta all’amministrazione fallimentare realizzarne eventualmente il valore attraverso un cessione al momento di procedere alla liquidazione dell’attivo.

Una considerazione particolare va fatta riguardo alla ditta, che non è un segno registrato, ma risulta comunque dall’iscrizione dell’imprenditore nel Registro delle Imprese. A questo proposito è noto che il 2° comma dell’art. 2564 c.c. è stato sostanzialmente oggetto di un’interpretazione abrogatrice, giustificata da una serie di indici sistematici di notevole rilievo. Certo, la norma dice letteralmente che l’onere di modificare la ditta confondibile con quella di un altro imprenditore per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui essa è esercitata va a carico di chi ha iscritto la sua ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore. Di qui può essere preso lo spunto per chiedersi se, in caso di fallimento, gli organi della procedura possano agire (fino alla cancellazione dell’impresa dal registro) nei confronti di terzi che abbiano adottato un nome commerciale simile a quello del fallito, anche se la ditta del fallito sia ormai stata completamente dimenticata dal mercato. Al quesito non è possibile rispondere compiutamente in questa sede: esprimo perciò in forma del tutto apodittica il convincimento che in un’ipotesi del genere sussisterebbe la potenzialità di una ripresa dell’attività dell’impresa almeno fino al momento della totale disgregazione dell’azienda e, secondo una tesi che venne difesa per i marchi registrati prima della riforma dell’art. 15 R.D. 21 giugno 1942 n.929, anche dopo tale disgregazione (GHIDINI, 49, che però a p. 55 sembra dire una cosa incompatibile; contra FORMIGGINI, 1123).

In alternativa si potrebbe pensare che l’art. 2564 c.c. vada inteso nel senso che al secondo arrivato può essere imposto solo l’onere di non adottare un nome del tutto coincidente con la ditta del fallito (ipotesi peraltro assai improbabile, dato il normale interesse dell’imprenditore in bonis di non farsi passare per il fallito). D’altro lato, una volta persa qualunque notorietà e disgregata l’azienda, la ditta del fallito non potrebbe essere ceduta a terzi: infatti la protezione dell’art. 2564 c.c. sarebbe limitata ad un profilo, per così dire, pubblicistico (di mera funzionalità del registro), che verrebbe meno in caso di alienazione del nome a terzi; un eventuale contratto di cessione della ditta non avrebbe del resto più oggetto e sarebbe perciò nullo, in quanto non trasferirebbe all’acquirente nessuna residua o specifica utilità: ed infatti l’acquirente potrebbe utilizzare un segno del tutto identico, purchè distinto per es. da una diversa indicazione del rapporto sociale o da altri simili accorgimenti.

10. Supponiamo ora che, prima del fallimento, il fallito abbia compiuto atti di disposizione sui propri diritti di proprietà intellettuale. Prima questione da affrontare è se tali atti di disposizione siano opponibili al fallimento e a che condizioni.

In materia di marchi registrati e di brevetti, va ricordata l’esistenza dell’istituto della trascrizione degli atti di disposizione aventi ad oggetto i diritti in questione. La trascrizione ha funzione di pubblicità dichiarativa e vale a dirimere i conflitti tra più aventi causa dello stesso titolare. Applicando i principi dell’art.45 L.F. dottrina e giurisprudenza ritengono che l’omissione della formalità renda inopponibile l’atto di cessione o di disposizione al fallimento del dante causa (FORMIGGINI, 1118; Trib. Torino 27 gennaio 1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 259; v. anche Trib. Bologna 5 novembre 1993, in Il dir. ind., 1994, 551).

Se l’atto di disposizione è inopponibile al fallimento, al fallimento spetta la titolarità piena del diritto, con la conseguenza che l’avente causa rimane esposto all’azione di contraffazione eventualmente promossa nei suoi confronti dal curatore del fallimento, ovviamente se munito delle previste autorizzazioni.

In materia di diritti d’autore non esiste invece, se non per le opere cinematografiche (per le quali si veda l’art.22, 2° comma, L. 1 marzo 1994, n.153), una previsione che richieda la trascrizione obbligatoria nei registri contemplati dall’art. 103 della L. 22 aprile 1941 n.633 degli atti di disposizione aventi ad oggetto le opere registrate. La trascrizione prevista dall’art. 104 non vale dunque a risolvere conflitti fra diversi aventi causa del titolare dei diritti di utilizzazione economica del diritto d’autore (o dei diritti connessi), ma tutt’al più consentono di conseguire la certezza della data dell’atto di disposizione anche ai fini dell’art. 2704 c.c..

Per le opere cinematografiche, invece, l’omissione della trascrizione produce gli stessi effetti visti precedentemente per i brevetti e le registrazioni di marchio: l’art. 22 della L. 1 marzo 1994, n.153, al 2° comma, dice infatti esplicitamente che la trascrizione è obbligatoria, e non meramente facoltativa come nel caso delle altre opere dell’ingegno, e serve a rendere l’acquisto dell’avente causa opponibile ai terzi.

Al di fuori delle ipotesi sopra considerate, valgono le regole generali desumibili dall’interpretazione dell’art. 45 L.F. e dall’art. 2704 c.c., con l’avvertimento che, per i diritti sui beni immateriali, la regola è che gli atti di disposizione non richiedono la forma scritta né ad probationem né tantomeno ad substantiam.

11. Non di rado l’approssimarsi del fallimento induce l’imprenditore (o chi nell’impresa riveste i ruoli di guida gestionale) a tentare di mettere in salvo la più “personale” delle proprietà aziendali, quella dei beni immateriali, con la quale si potrà riprendere l’attività con una nuova veste ed una nuova impresa, che succede a quella dichiarata fallita.

Nulla quaestio se siano state omesse le formalità richieste per rendere l’atto opponibile al fallimento.

Qui però occorre vedere che cosa accade se tali formalità siano state messe in atto. Evidentemente nelle occasioni che ho appena descritto verranno in considerazione eventuali iniziative revocatorie, giacché, fra l’altro, non di rado i corrispettivi saranno anormalmente ridotti o le condizioni dello scambio saranno di regola sbilanciate a favore dell’avente causa.

In breve, anche se non si può escludere che in taluni casi le revocatorie possano colpire atti di disposizione dei diritti di proprietà industriale compiuti con veri e propri terzi, il campo in cui si avrà la più ampia applicazione del rimedio revocatorio è quello degli atti compiuti con nuove emanazioni imprenditoriali del fallito (e se il fallito è una società di capitali, dei suoi azionisti di riferimento, dei suoi soci più o meno tiranni e dei suoi amministratori).

Una spiegazione ulteriore di quanto ho appena descritto può essere rintracciata nel fatto che la revoca di una cessione o di una licenza di marchio o di brevetto può produrre effetti dirompenti sull’organizzazione del cessionario o del licenziatario, senza giovare al fallimento, che non può sfruttare direttamente il bene (salvo l’esercizio provvisorio) e può aver difficoltà a reperire un altro interessato all’acquisto dello stesso. Si deve considerare la circostanza che le tecnologie brevettate e perfino i marchi possono essere sfruttati più efficacemente da chi li conosce bene e che il primo interessato al loro acquisto e chi li usa da un tempo sufficiente per essersi familiarizzato con loro (in materia si v. FORMIGGINI, 1114-1115).

Può comunque accadere che, in certe situazioni, si possa configurare una distrazione dell’attivo, di rilevanza penale. La cosa merita una specifica menzione perchè il valore dei beni immateriali non è facilmente determinabile in modo obiettivo (FORMIGGINI, 1114).

L’effetto del successo dell’azione revocatoria è il solito: il fallimento potrà agire anche contro l’avente causa del fallito con l’azione di contraffazione (un caso in cui ciò sarebbe avvenuto, secondo l’annotatore del provvedimento, è quello deciso dal provvedimento del Trib. Bologna 5 novembre 1993, in Il dir. ind., 1994, 551, che peraltro non è molto chiaro al riguardo).

12. Gli effetti del fallimento sui contratti di licenza di marchio e di brevetto per invenzione o per modello sono regolati, secondo l’opinione più diffusa, sul modello dell’art. 80 L.F. (FORMIGGINI, 1116); e ciò benchè l’art. 80 si occupi in realtà soltanto di locazione di immobili.

Pertanto, ove sia fallito il concedente, il contratto prosegue con il subentro del curatore, a meno che il contratto contenga una c.d. clausola di scioglimento automatico. Il 1° comma dell’art. 80 L.F., che prevede la prosecuzione del rapporto in caso di fallimento del locatore, ammette infatti il patto contrario.

Nel settore della moda e, meno frequentemente, in altri settori, accade che il contratto di licenza si combini con un contratto di somministrazione di merci, spesso in esclusiva, dal licenziatario al licenziante. In questi casi, se fallisce il concedente, il venir meno della somministrazione per iniziativa del curatore può dar luogo al parallelo scioglimento del contratto di licenza, ad iniziativa del licenziatario in bonis. Quest’ultimo infatti può non aver interesse a continuare la fabbricazione senza avere un acquirente sicuro dei suoi prodotti, o comunque, anche sussistendo l’interesse, può non disporre di un’adeguata organizzazione di vendita.

Se fallisce il licenziatario, il curatore può scegliere di proseguire il contratto o recedere pagando un equo compenso (FORMIGGINI, 1117: opinione peraltro non pacifica).

Il subentro è razionalmente giustificabile non solo con riferimento all’ipotesi dell’esercizio provvisorio, ma anche nella prospettiva di una vendita dell’azienda del fallito, o del suo affitto (FORMIGGINI, 1117). Può inoltre accadere che il licenziatario fallito sia contrattualmente autorizzato a concedere sublicenze.

Specie se la licenza è esclusiva, tuttavia, il licenziante potrebbe subire un ingiusto danno dalla sospensione dello sfruttamento della licenza da parte del curatore, cioè anche se quest’ultimo pagasse le royalties minime eventualmente pattuite. Pertanto qualche autore pensa che gli interessi contrapposti si possano conciliare fissando un termine “al curatore, subingredito nel contratto per riprendere l’uso del bene immateriale o direttamente oppure indirettamente (FORMIGGINI, 1118). Con il decorso infruttuoso del termine, il licenziante potrebbe risolvere il contratto.

Ricordo peraltro che accanto a questa tesi, la dottrina ha prospettato altre teorie per risolvere la questione degli effetti del fallimento del conduttore sulle locazioni mobiliari (fra le quali rientrano quelle che qui interessano). Si è così pensato ad una sospensione del contratto, con facoltà di subingresso del curatore, da esercitare con una espressa dichiarazione. Si è anche suggerito che il contratto si sciolga ex lege.

Il più delle volte, comunque, i contratti di licenza contengono delle clausole di scioglimento in caso di insolvenza del licenziatario. Queste clausole non sarebbero ammissibili a norma del secondo comma dell’art. 80 L.F.: tuttavia la disposizione appena citata non è applicabile direttamente al caso in esame, che va dunque risolto secondo la ratio generale del sistema, quale emerge anche nel primo comma dell’articolo. La ratio è in particolare quella di non sacrificare eccessivamente gli interessi della controparte in bonis, che potrebbe ricevere dal fallimento dell’altro contraente un pregiudizio sproporzionato.

In questa chiave sembra preferibile la tesi secondo cui la clausola di scioglimento opera anche in caso di fallimento del licenziatario; in mancanza sembra equa l’applicazione del 2° comma dell’art. 80 L.F., senza però accordare al concedente anche il diritto di far fissare termini al curatore o di risolvere il contratto. Questa conclusione si giustifica infatti con il principio vigilantibus jura succurrunt: poiché il concedente poteva cautelarsi ex ante con la clausola di scioglimento, non ha senso permettergli ex post di ottenere in pratica lo stesso risultato.

13. Una disciplina particolare vale per gli effetti del fallimento sul contratto di edizione.

L’art. 135 L. 22 aprile 1941 n.633 stabilisce infatti che in caso di fallimento dell’editore il contratto di edizione non sia risolto di diritto per effetto della dichiarazione di insolvenza. Tuttavia esso si risolve dopo un anno se nel frattempo il curatore non è stato autorizzato a continuare l’impresa con l’esercizio provvisorio ovvero non ha ceduto l’azienda editoriale; in quest’ultimo caso resta salva la disposizione dell’art. 132 L. 22 aprile 1941 n.633, secondo cui il trasferimento del contratto di edizione con l’azienda non può avere luogo se vi sia un pregiudizio alla reputazione o alla diffusione dell’opera.

La disposizione dell’art. 135 è stata ritenuta applicabile (in teoria) anche ai contratti di rappresentazione e di esecuzione, in virtù del generale richiamo dell’art. 136, 1° comma, L. 22 aprile 1941 n.633; ma il secondo comma della norma citata per ultima dice che i diritti nascenti da detti contratti non sono mai trasferibili, salvo patto contrario, il che rende praticamente inutilizzabile la disciplina cui il 1° comma rinvia.

L’art. 135 L. 22 aprile 1941 n.633 non vale per gli altri atti di trasferimento dei diritti di utilizzazione economica di opere protette dalla legge sul diritto d’autore. Per esse valgono le regole desumibili dai principi generali in tema di rapporti pendenti.

14. La cessione dei diritti di proprietà intellettuale da parte degli organi della amministrazione fallimentare comporta problemi di un certo rilievo riguardo ai marchi, alla ditta ed all’insegna.

Per i marchi registrati – e per estensione analogica – anche per i marchi non registrati o di fatto, è stato abolito il c.d. vincolo aziendale, cioè la regola dettata dal vecchio testo dell’art. 15 R.D. 21 giugno 1942 n.929 in forza della quale la cessione del marchio doveva essere accompagnata, a pena di nullità, dal trasferimento dell’azienda o del ramo d’azienda cui il marchio era inerente.

Resta però il principio che dal trasferimento dei marchi non deve derivare inganno per il pubblico (art. 15, 4° comma, nuovo testo R.D. 21 giugno 1942 n.929). Ci si chiede, allora, se debba esser in qualche modo segnalato al pubblico che il titolare del marchio è cambiato, ogni volta che il mutamento del titolare del segno distintivo sia un elemento rilevante per i consumatori o, per le diverse caratteristiche dei prodotti che saranno contraddistinti con il marchio dal nuovo proprietario, sia comunque potenzialmente idoneo a trarre in errore i terzi (MARASÀ, 102; VANZETTI, 84 ss.).

Per quanto le preoccupazioni della dottrina siano – al riguardo – più che condivisibili, occorre dare atto che la pratica sottovaluta (ed anzi ignora quasi completamente) questo profilo. In genere, si può osservare che i consumatori sono poco sensibili agli inganni che possono derivare dalla circolazione dei marchi e che ben di rado i concorrenti hanno tempo da perdere e denaro da investire in impugnazioni di atti cui essi sono e desiderano restare estranei.

In sintesi, le contestazioni fondate sulla nullità del trasferimento del marchio – come quelle fondate sulla decadenza del segno per sopravvenuta decettività – sono tipicamente delle eccezioni sollevate dai convenuti nelle azioni di contraffazione. Sembra però improbabile che questo genere di difese possa trovare accoglimento quando chi agisce si è procurato la titolarità del marchio acquistandolo da un fallimento.

Per la ditta, invece, il vincolo aziendale è ancora previsto dall’art. 2565 c.c..

L’esistenza di regole diverse per la ditta e per il marchio appare a molti inspiegabile, soprattutto considerato che spesso ditta e marchio coincidono. Non è questo il contesto idoneo ad analizzare le diverse proposte interpretative affacciatesi nella dottrina per coordinare l’art. 2565 c.c. con l’art. 15 R.D. 21 giugno 1942 n.929 (v. il quadro delle opinioni in SPOLIDORO, 55 ss.).

Invece è opportuno chiarire che la cessione della ditta richiede la cessione dell’intera azienda, perché la ditta è il nome di tutta l’impresa. Eccezionalmente però vi sono ditte che contraddistinguono le c.d. “divisioni” di un’impresa, e solo in queste ipotesi potrà essere sufficiente il trasferimento contestuale del corrispondente ramo aziendale.

Di sicuro, per trasferire la ditta non è sufficiente la c.d. “cessione immateriale” o “spirituale” di azienda, che ricorre quando l’azienda sia rappresentata dal “diritto di fabbricare e vendere” certi prodotti oppure da formule di produzione più o meno segrete. La “spiritualizzazione” dell’azienda era ritenuta sufficiente da una giurisprudenza lassista (criticata vigorosamente da una parte della dottrina), ma comunque solo per i marchi; anzi, soprattutto per i marchi “speciali”, che sono quelli che designano solo alcuni prodotti o linee di prodotto dell’impresa.

Per la ditta, che è un segno distintivo per sua natura generale, le cose non stavano nello stesso modo e non c’è ragione di mutare avviso dopo che la disciplina dei marchi si è diversificata anche dal punto di vista legislativo. Si deve inoltre escludere che la ditta possa esser ceduta isolatamente dopo la totale disgregazione dell’azienda perché, in tal caso, se permane il ricordo del fallito sul mercato la cessione sarebbe potenzialmente decettiva e quindi in contrasto con la ratio del vincolo aziendale; se viceversa nel mercato si fosse perso il ricordo della ditta, la cessione sarebbe nulla per inesistenza del bene ceduto.

L’art. 2565 c.c. prevede che la cessione della ditta non sia un effetto naturale del trasferimento dell’azienda per atto tra vivi, ma richieda un espresso consenso. Invece nella successione mortis causa vige il principio contrario: la ditta si trasferisce salvo diversa disposizione testamentaria.

Per quanto gli antichi insegnassero che il fallito pro mortuo habetur, il trasferimento dell’azienda e quello della ditta ad opera dell’amministrazione fallimentare sono atti tra vivi.

Non per questo il fallito deve dare il suo consenso alla cessione. Gli argomenti equitativi portati a favore della tesi della necessità di questo consenso non convincono più di quelli fondati sul carattere strettamente personale della ditta, che si è già escluso all’inizio di questo scritto: il consenso dell’alienante di cui parla la norma è il consenso della parte contrattuale che dispone della titolarità dell’azienda cioè, nel caso del fallimento, è il consenso del curatore (RIVOLTA, 934).

E’ vero che la disposizione citata è diretta anche alla tutela di un interesse personale (ma disponibile e quindi monetizzabile) dell’imprenditore. Ciò fra l’altro giustifica la tesi secondo cui essa vale solo per le ditte originarie delle persone fisiche (cioè quelle che coincidono con – o contengono – il nome personale dell’imprenditore), non per quelle delle persone giuridiche o per quelle di fantasia o per le ditte “derivate” (che sono quelle contenenti il nome personale di un precedente titolare dell’impresa): tesi, questa, che può esser dimostrata ponendo a confronto il 2° comma dell’art. 2565 con il 2° comma dell’art. 2573 c.c..

Nondimeno, l’interesse dell’imprenditore fallito deve cedere all’interesse del fallimento a recuperare tutti i valori presenti nell’attivo fallimentare, sicché i diritti di veto del fallito non devono essere riconosciuti al di là dei casi in cui essi risultino chiaramente dal sistema (si pensi al caso dell’opera letteraria non pubblicata). Per la persona fisica che ha dato all’impresa il proprio nome, il fallimento è senz’altro un’onta maggiore della cessione della ditta contenente quel nome ad un imprenditorein bonis. Anche in base ad un prudente bilanciamento degli interessi in gioco, pare dunque preferibile confermare il risultato interpretativo già conseguito sulla base del tenore testuale dell’art. 2565 c.c..

Resta comunque ovviamente escluso che il curatore possa registrare come marchio o usare come ditta il nome personale dell’imprenditore, anche se celebre, quando l’imprenditore non l’abbia volontariamente destinato al traffico commerciale (RIVOLTA, 945 e ss.).

15. La cessione dei diritti di proprietà intellettuale, da parte del curatore del fallimento, trasferisce al cessionario il diritto di esclusiva, che in termini moderni è definito come il diritto di stabilire in ciascun momento quanti prodotti rientranti nel monopolio del titolare possono essere immessi in commercio.

Se nell’attivo del fallimento ci sono anche prodotti rientranti nell’esclusiva, occorre coordinare la regola secondo cui il (nuovo) titolare del diritto deve poterlo sfruttare pienamente, eventualmente anche opponendosi all’immissione in commercio di prodotti fabbricati da chi gli ha ceduto l’esclusiva prima della cessione, e l’interesse del fallimento di recuperare tutti i valori dell’azienda del fallito.

Il conflitto è emerso in un caso che sta per essere deciso nel merito dal Tribunale di Milano, dopo due ordinanze cautelari, nel quale ho prestato la mia attività professionale e che per questo motivo espongo astenendomi da qualunque commento.

Il fallimento di un produttore di abbigliamento intimo per signora vende il marchio ad un imprenditore del settore. Tempo dopo vengono reperiti numerosi capi di abbigliamento, trafugati prima della dichiarazione di fallimento, che il curatore acquisisce.

Questi capi vengono venduti dal curatore ad uno specialista del settore che in parte li pone in vendita presso un suo spaccio e in parte li offre, prima allo stesso acquirente del marchio, e poi ad altri grossisti.

Il nuovo titolare del marchio, che ha fatto importanti investimenti per rilanciare il marchio, ha un evidente interesse economico ad evitare che sul mercato i prodotti da lui messi in commercio in negozi eleganti ed a prezzo relativamente elevato non convivano con i prodotti fabbricati dal fallito, e ceduti dal fallimento dopo la cessione del marchio, che vengono offerti a prezzo stracciato sulle bancarelle dei mercati.

Dall’altro lato l’acquirente della merce ed il fallimento hanno economicamente un interesse del tutto opposto: il primo perché ovviamente deve recuperare l’investimento fatto comprando la merce stessa, il secondo per non perderne il valore.

In termini giuridici, la tesi dell’acquirente del marchio si può ricostruire in questi passaggi logici: le merci recuperate dal fallimento non erano state ancora immesse in commercio dal precedente titolare del marchio, cioè dal fallito. Pertanto il diritto di esclusiva su dette merci non si era esaurito, ai sensi dell’art. 1 bis R.D. 21 giugno 1942 n.929; norma che appunto stabilisce, rispetto ai marchi registrati, il principio generalmente valido nel settore della proprietà intellettuale, in forza del quale il titolare del diritto non può opporsi alla circolazione dei prodotti coperti dall’esclusiva dopo che essi sono stati messi in commercio da lui o con il suo consenso nel territorio dello Stato o dell’Unione Europea.

Il fallimento e l’acquirente della merce sostengono invece la prevalenza delle norme relative alla liquidazione fallimentare, che tutelano interessi pubblici, su quelle relative alla proprietà intellettuale, che proteggono un interesse individuale del titolare. Inoltre il fallimento e l’acquirente della merce ritengono che lo spossessamento fallimentare sia di per sé una fattispecie di immissione in commercio o comunque di esaurimento del diritto.

Nella fase cautelare il Giudice Delegato ha respinto le istanze dell’acquirente del marchio, seguendo la tesi che ho esposto per seconda; nel giudizio di reclamo, il Collegio ha invece preferito la prima tesi ed ha concesso le misure cautelari richieste.

Se si segue l’impostazione del provvedimento sul reclamo, i curatori che nell’attivo fallimentare rinvengono sia diritti di proprietà intellettuale, sia merci in cui sono “incorporati” tali diritti, devono preoccuparsi di seguire un certo ordine nelle cessioni, alienando prima le merci e poi i beni immateriali, oppure, inversamente, devono inserire nei contratti di trasferimento dei beni immateriali le clausole più opportune per contemperare i contrapposti interessi della massa e dell’acquirente del segno.

fazzini Prime impressioni sulla riforma della disciplina dei marchi, in Riv. dir. ind., 1993, I, 159

FORMIGGINI Il fallimento e i diritti sui beni immateriali, in Riv. dir. civ., 1956, p. 1109Ghidini I diritti di proprietà industriale nel fallimento, in Riv. dir. ind., 1974, I, p. 47

limardo Marchi, brevetti ed invenzioni non brevettate nel fallimento dell’impresa, in Il dir. fall., 1978, I, 536

marasà Commento agli artt. 11, 15, 49, 50, 51 R.D. 21 giugno 1942 n.929 e 2573 c.c., in AA.VV. Commento tematico della legge marchi, Torino, 1998, p. 95

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rivolta Ditta e marchi nel fallimento, in AA.VV., Problemi attuali del diritto industriale, Milano, 1977, p. 925

sena Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 1994

spolidoro Commento all’art. 13 R.D. 21 giugno 1942 n.929 in AA.VV. Commento tematico della legge marchi, Torino, 1998, p. 52

vanzetti La funzione del marchio in un regime di libera cessione, in Riv. dir. ind., 1998, I, p. 71

 

 

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