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GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA’ – Sui pagamenti al legalmonopolista – Numero unico 2000 – Pag. 71

 
 

con nota di P. Voltaggio – Corte di Cassazione – Sez. I Civile – Sent. n. 12358 del 6.11.99 – Pres. P. Senofonte – Est. U.R. Panebianco – P.M. Schirò (conf.)

REVOCATORIA FALLIMENTARE DEI PAGAMENTI AL LEGALMONOPOLISTA – POSIZIONE DEL VENDITORE CON RISERVA PROPRIETA’ – ANALOGIA – ESCLUSIONE

REVOCATORIA FALLIMENTARE DI PAGAMENTI DI DEBITI LIQUIDI ED ESIGIBILI –
CONTROPRESTAZIONE ACQUISITA AL FALLIMENTO – MANCANZA LESIONE PAR CONDICIO –
ESCLUSIONE

MAGGIOR DANNO – DIFFERENZA TRA INTERESSE LEGALE ED INTERESSE SU LIBRETTO DEPOSITO
– LEGITTIMITA’

Nessuna analogia può essere ravvisata né alcun accostamento operato, ai fini della esercitabilità dell’azione
revocatoria fallimentare, fra la posizione del legalmonopolista e quella del venditore nella vendita con riserva della
proprietà, attesa la mancanza per quest’ultimo di un obbligo a contrarre e considerata l’utilizzabilità da parte sua,
nel corso del rapporto, di strumenti giuridici idonei ad evitare possibili azioni revocatorie nei suoi confronti (1).

Nella revocatoria di pagamenti relativi a debiti liquidi ed esigibili prevista dall’art. 67 comma 2 L.F. il danno per
la massa consiste nella pura e semplice lesione del criterio della par condicio creditorum, con la conseguenza che
esso sussiste anche quando entri un bene, come controprestazione, nel patrimonio del fallito (2).

Stante l’obbligo imposto al curatore di depositare presso un ufficio postale od un istituto bancario le somme
riscosse nel corso della procedura fallimentare, deve ritenersi legittima l’attribuzione in via presuntiva della
differenza fra l’interesse praticato in detti depositi ed il minore interesse legale fino ad allora in vigore (3).

(omissis…)

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1523, 1358 e 1375 c.c.
nonché dell’art. 67 comma 2 L.F., lamentando che la Corte d’Appello abbia escluso che il patto di riservato dominio
impedisca la revoca del pagamento delle rate del prezzo, senza considerare che in tal caso il venditore non ha
facoltà di scegliere se trattenere o rifiutare il pagamento in quanto è tenuto a conservare integre le ragioni della
controparte (art. 1358 c.c.), configurandosi così una situazione analoga a quella dell’impresa monopolistica per la
quale è stato affermato il principio dell’inapplicabilità nei suoi confronti dell’art. 67 L.F.

La censura è infondata.

Con la tesi espressa nel presente motivo di ricorso si prospetta sostanzialmente l’esistenza di una situazione
analoga, ai fini in esame, fra la vendita con riserva della proprietà e la posizione del legalmonopolista, in ordine al
quale la giurisprudenza di questa Corte, peraltro nel frattempo consolidatasi con la recente sentenza delle Sezioni
Unite (11.11.1998 n.11350), ha affermato il principio della non assoggettabilità all’azione revocatoria fallimentare
dei pagamenti effettuati dall’altro contraente.

E’ necessario quindi richiamare le ragioni fondamentali poste a sostegno di un tale principio che ha sostanzialmente
introdotto, per via ermeneutica, un ulteriore deroga, oltre a quella espressamente prevista dall’art. 67 u.c. L.F. alla
generale applicazione dell’azione revocatoria fallimentare.

I riferimenti normativi considerati al riguardo determinanti sono costituiti dagli artt. 2597 e 1461 c.c.

In base a tali norme si è sottolineato l’obbligo per il monopolista di contrattare con chiunque richieda la prestazione
(art. 2597 c.c.), senza che abbiano rilievo le sue condizioni personali e patrimoniali, obbligo che riguarda non solo la
fase genetica ma anche quella funzionale del rapporto e che perdura quindi anche in presenza delle condizioni che,
ai sensi dell’art. 1461 c.c., avrebbero giustificato la sospensione della prestazione.

Si ritiene in sostanza che, essendo la revocatoria basata sul rischio liberamente accettato da chi, pur consapevole
dello stato d’insolvenza del debitore, ne accetta i pagamenti e non essendo consentito invece al legalmonopolista in
tale situazione di sospendere la propria prestazione, viene a mancare l’elemento caratterizzante, costituito dalla
libertà di scelta e cioè dalla possibilità di esercitare quella forma di autotutela rappresentata dalla sospensione della
prestazione. Da qui l’irrevocabilità di quanto ricevuto a titolo di controprestazione.

Ma tali caratteri non sono assolutamente individuabili nella vendita con riserva della proprietà in cui il sorgere del
rapporto contrattuale è frutto di una libera scelta di entrambe le parti ed in cui le condizioni economiche
dell’acquirente esercitano certamente sin dall’inizio un ruolo decisivo.

Né rileva che difficilmente potrebbe trovare applicazione l’art. 1461 c.c., ipotizzabile nel tipo di vendita in questione
solo se le condizioni economiche mutino ancor prima della consegna della cosa, dipendendo una tale conseguenza
non già da un obbligo ex lege ad eseguire ugualmente la prestazione, come nel caso del legalmonopolista, ma solo
dalla particolare struttura di tale contratto in cui la consegna della cosa avviene all’atto della sua conclusione, molto
prima dell’integrale pagamento del prezzo, all’esito del quale si produce l’effetto traslativo della proprietà, con la
conseguenza che il venditore in tal caso, eseguita la consegna, non può essere più considerato soggetto passivo
della prestazione e perde ogni possibilità di tutelare in via cautelare, attraverso la sospensione, la propria posizione.

Ma rilevanza decisiva assume la facoltà, da riconoscersi al venditore, di rifiutare nel corso del rapporto i pagamenti
rateali, nonostante l’avvenuta consegna della cosa e malgrado il contrario interesse dell’acquirente per il quale
l’acquisto della proprietà è subordinato appunto all’integrale pagamento del prezzo.

Tra i motivi legittimi che giustificano infatti, ai sensi dell’art. 1206 c.c., il rifiuto, da parte del creditore, della
prestazione del debitore e che impediscono il consolidarsi degli effetti della mora accipiendi rientra certamente il
rischio di possibili revoche dei pagamenti sia a seguito dell’azione revocatoria fallimentare (art. 67 comma 2 L.F.)
che di quella ordinaria (art. 2901 c.c.).

Nel contrasto di interessi fra le due parti non può certamente considerarsi prevalente quello dell’acquirente, non
potendosi al venditore contestare di valutare le mutate condizioni dell’acquirente, di evitare i rischi connessi al
fallimento ed alle conseguenti azioni a tutela della massa dei creditori e di rifiutare così la prestazione, specie
quando (come nel caso in esame, caratterizzato dal mancato pagamento di una rata, di importo superiore all’ottava
parte del prezzo, verificatosi in due successive scadenze) ricorrono le condizioni per l’esercizio da parte sua
dell’azione di risoluzione per inadempimento ai sensi degli artt. 1525 e 1526 c.c.

Né giova il richiamo operato dalla ricorrente società all’art. 1358 c.c., secondo cui in pendenza della condizione, sia
essa sospensiva o risolutiva, ciascuna delle parti deve conservare integre le ragioni dell’altra.

Tale norma altro non è che un’applicazione del principio generale di correttezza e buonafede contenuto negli artt.
1175 e 1375 c.c., di cui la presente disamina tiene certamente conto, ma che non può precludere la valutazione sulla
legittimità del rifiuto del creditore quando esso è giustificato, come nel caso in esame, dal rischio d’insolvenza che
viene così a costituire un motivo legittimo assolutamente compatibile con il suddetto principio.

Nessuna analogia, quindi, può essere ravvisata né alcun accostamento operato, ai fini della esercitabilità dell’azione
revocatoria fallimentare, fra la posizione del legalmonopolista e quella del venditore nella vendita con riserva della
proprietà, attesa la mancanza per quest’ultimo di un obbligo a contrarre e considerata l’utilizzabilità da parte sua,
nel corso del rapporto, di strumenti giuridici idonei ad evitare possibili azioni revocatorie nei suoi confronti.

In definitiva deve prendersi atto che la giurisprudenza di questa Corte, nel ravvisare per via di interpretazione un
ulteriore deroga al principio della generale applicazione della revocatoria fallimentare a tutela della “par condicio
creditorum”, l’ha giustificata in base a precisi e peculiari parametri giuridici non applicabili nella diversa figura in
esame.

(omissis…)

Nota di Paolo Voltaggio

(1-3) Con la sentenza in esame la Suprema Corte respinge il tentativo del venditore con riserva della proprietà,
convenuto in giudizio per la revoca ex art. 67 L.F. dei pagamenti ricevuti nel periodo sospetto, di equiparare la sua
posizione a quella dell’impresa in regime di monopolio, in ordine alla quale le Sezioni Unite della Cassazione, con la
sentenza n. 11350 dell’11.11.98, hanno affermato il principio della non assoggettabilità dell’azione revocatoria
fallimentare dei pagamenti ricevuti dall’altro contraente.

La Suprema Corte – specificando che, con riguardo al legalmonopolista, la deroga al principio della generale
applicazione della revocatoria fallimentare a tutela della par condicio creditorum trova il suo fondamento in precisi
e peculiari parametri giuridici – non riscontra alcuna analogia tra le due posizioni. Ciò in quanto nella vendita con
riserva della proprietà il rapporto contrattuale sorge a seguito di una libera scelta delle parti e che, in tale fase, il
venditore è in grado di valutare le condizione economiche dell’acquirente.

Giustamente viene, inoltre, data rilevanza decisiva alla facoltà del venditore di rifiutare nel corso del rapporto
pagamenti rateali. Ciò, infatti, può avvenire, ai sensi dell’art. 1206 c.c., allorché il venditore percepisca il rischio di
possibili revoche dei pagamenti a seguito di azioni revocatorie fallimentari ed ordinarie.

Ove si manifestino i segni premonitori di un futuro dissesto, nel contrasto di interessi fra le due parti prevarrà
quello del venditore al quale è senz’altro consentito di valutare l’eventuale mutamento delle condizioni economiche
del compratore, di evitare i rischi connessi ad un futuro fallimento del medesimo e di rifiutare, quindi, la sua
prestazione. Soprattutto quando, come nel caso di specie, a seguito del mancato pagamento di rate per importo
superiore all’ottavo del prezzo, il venditore poteva agire per la risoluzione per inadempimento.

Decidendo gli ulteriori motivi di ricorso la Corte, in primo luogo, ribadisce il principio consolidato secondo cui, nel
caso di pagamenti relativi a debiti liquidi ed esigibili, il danno alla par condicio è in re ipsa non rilevando, al fine
della esclusione del danno, la circostanza della eventuale acquisizione all’attivo fallimentare del bene
controprestazione del pagamento.

Viene, peraltro, riconosciuta la possibilità della condanna al maggior danno ex art. 1224 secondo comma c.c. che, in
difetto di deduzione e di prova del fatto che il tempestivo pagamento avrebbe consentito di evitare gli effetti
dell’inflazione, può essere determinato nella eventuale differenza tra la misura degli interessi riconosciuti alla
procedura nel libretto di deposito aperto ai sensi dell’art. 34 L.F. e il tasso degli interessi legali corrente all’atto del
pagamento.

Infine, viene confermato il consolidato indirizzo del Supremo Collegio in merito all’insindacabilità in sede di
legittimità della valutazione degli elementi di fatto che hanno condotto alla determinazione della scientia o
inscientia decoctionis, allorché detta valutazione sia immune da vizi logici.

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