L’Orto Botanico di Roma

 

più di un giardino, più di un’istituzione scientifica, vero museo di piante vive.

 

Nel quartiere di Trastevere, alle pendici del Gianicolo, a due passi dal Regina Coeli si colloca uno degli angoli più straordinari della pulsante Città Eterna, in cui si abbracciano natura, storia, scienza ed architettura. E’ l’Orto Botanico che, sotto la direzione del Prof. Giancarlo Avena, sta per superare la mera funzione scientifica e didattica per intraprendere la strada della moderna “impresa di cultura” tracciata dalla legge Ronchey.

                                               di Gabriella Belisario e Maurizio Calò

 

Prima di tutto, professor Avena, ci spieghi che cosa è un Orto Botanico moderno. Quali sono le sue funzioni e che tipo di rapporto ha la città di Roma con questo riservato angolo verde che si nasconde dietro il poetico Largo Cristina di Svezia?

 

“E’ difficile spiegare ai visitatori, più di centomila ogni anno che, varcati questi cancelli, l’aspetto esteriore del giardino contiene, in realtà, una istituzione universitaria, un luogo di ricerca e di studio.

Questo perché nella nostra epoca il giardino ha perso le sue connotazioni filosofiche e teoriche, sulle quali sarebbe lungo dissertare in questa sede, per acquisire quelle più popolari di parco pubblico dove passeggiare e sostare al fresco.

Nel tipico parco le piante e gli alberi sono quinte più o meno evocative di luoghi ameni e fanno parte del paesaggio. Invece, in un orto botanico, sono loro le protagoniste e noi gli intrusi.

La concezione del giardino quale riflesso ordinato del caos naturale, quale intervento qualificato dell’uomo faber, ha una storia che, in Italia, parte dai romani che lo consideravano contemporaneamente fattore estetico e di raccordo tra la villa, la campagna, gli orti e il paesaggio, per arrivare all’estremo opposto durante il medioevo, con l’hortus conclusus e cioè uno spazio chiuso realizzato presso o conventi in cui venivano coltivate piante medicinali utili, orticole e alberi da frutto. A questo punto, si contrapponeva l’hortus deliciarum, il vero giardino immaginario invitante ai piaceri della poesia e dell’amore, paradiso di frutta e fiori in una eterna primavera.

E’ il rinascimento che riesce a concepire una programmazione vasta e articolata degli spazi verdi. La natura si deve piegare al disegno dell’uomo, ampie geometrie di bossi disegnano i paesaggi lineari così come le potature innaturali degli alberi sono progettate in singolari misure e volumi.

A questo punto della sua evoluzione la botanica si scinde dalla medicina assurgendo al rango di disciplina autonoma.

Si cominciano così a concepire i primi orti botanici là dove le aiuole, dopo aver perduto il loro senso estetico, ne acquisiscono uno più profondo di studio.

Gli orti botanici  insomma, nascono all’ombra dei giardini all’Italiana, anche se, in un certo senso, poi ne prescindono.

Ma per capire fino in fondo certi bizzarri andamenti (anche per le piante esistono le mode) bisogna considerare l’impulso che conferì all’arte del giardino la conoscenza dei nuovi territori, dal Nuovo Mondo all’Asia. Alla fine del 1600 molte varietà di piante furono portate in Europa da una serie di avventurosi scienziati-esploratori, cacciatori-dilettanti, che durante i loro viaggi, si misero a raccogliere fiori, piante ed alberi diversi e sconosciuti.

A volte queste nuove piante potevano avere un reale valore economico e interessare addirittura i governi, come accadde per il tè, altre volte erano specie rare e introvabili ad esercitare un fascino irresistibile sui loro possessori, come avvenne per il tulipano.

Era il momento del meraviglioso, dello strano, dell’esotico. La terra fu battuta palmo a palmo e, attualmente, tutti i nostri giardini, dal più piccolo balcone al più grande parco, sono figli di quelle spedizioni ardite”.

 

Dunque gli orti botanici nascono dai giardini, ma se ne separano quando vengono associati alle strutture universitarie. E’ successo così anche a Roma?

 

“L’Orto Botanico di Roma sia per la sua storia complessa, che vedremo a parte, sia per la sua ubicazione nel cuore del tessuto urbano della città, sia per le croniche difficoltà dell’amministrazione statale e universitaria, si pone in una posizione del tutto eccentrica rispetto alle analoghe istituzioni europee ed agli orti botanici delle grandi capitali del mondo.

Per definire i contorni di questa problematica cominciamo a vederlo da vicino.

L’Orto Botanico di Roma si estende per circa 12 ettari tra il lungotevere della Lungara e il Colle Gianicolense (quello che gli antichi romani chiamavano Monte d’Oro, famoso per i giardini di Geta); ospita attualmente una popolazione che oscilla tra le 3000 e le 3500 specie di piante, a volte assemblate in aiuole, a volte ricoverate in serre.

Ma oltre  ad un patrimonio vivo di piante, l’Orto Botanico possiede anche un suo notevole patrimonio artistico. Vi è la Fontana dei Tritoni del Padda, recentemente restaurata suscitando grande interesse anche perché è contemporanea di quelle del Bernini a P.zza Navona e del Tritone, nonché del Maini a P.zza di Trevi. Vi è lo scalone monumentale con la fontana degli 11 zampilli, residuo dell’abitazione della Regina Cristina di Svezia che si trovava in alto, in una casa oggi demolita per far posto alla statua di Garibaldi. Vi è la serra dei Corsini, poi le serre storiche, busti e statue di epoca romana. Infine vi è la famosa “prospettiva”, una balconata ad emiciclo in pietra con funzione di belvedere.

Ecco quindi che l’istituzione dell’Orto Botanico va ad operare all’interno di una complessità e varietà di problematiche (artistiche - urbanistiche - storiche) che esulano dalle competenze meramente scientifiche e didattiche che competono oggi agli orti botanici. D’altra parte Roma, se da una parte rende più complicato l’esplicarsi delle attività specialistiche, dall’altra, proprio le sue peculiarità, le valorizzano”.

I visitatori stranieri percepiscono questa diversità ambientale, questa aura che distingue il nostro dagli altri orti botanici?

"A Roma vengono da tutto il mondo, ma all’Orto Botanico arrivano soprattutto tedeschi inglesi e americani silenziosi, educati e con le loro guide sotto il braccio.

La diversità tra la nostra “cultura delle piante” e la loro è enorme, come enorme è la differenza di mezzi e personale che altrove vengono dispiegati in questo settore.

A Londra e New York gli orti botanici hanno circa 100/120 ettari di estensione, con circa 400 addetti tra laureati e non. Bruxelles si estende in 93 ettari; Vienna in 80 ettari; Berlino in 42 ettari; Parigi in 20 ettari e, per ultima, viene Roma con i suoi 12 ettari e circa 20 addetti.

Dunque una grande variabilità per grandezza ed organizzazione.

C’è da dire che, però, dal punto di vista giuridico e amministrativo, quasi tutte queste istituzioni dipendono dallo Stato, due, Berlino e New York, sono municipali e quello di Filadelfia, il più grande, è privato e sembra sia in attivo.

Certo c’è il peso della storia: l’orto Botanico di Roma è uno dei più antichi mentre tutti gli orti europei, ad eccezione di Parigi, non hanno più di 100 anni”.

 

Quali sono le funzioni di un orto botanico moderno?

 

“La prima è quella di essere un museo vivo, museo scientifico di piante vive. Ma questa funzione è in continuo divenire.

Gli orti botanici, fin dal loro primo apparire, hanno sempre aggiunto nuove finalità e si sono evoluti: dalla primitiva raccolta delle “semplici” piante officinali ad uso dei medici e dei cerusici, alla collezione di piante rare e preziose che hanno arricchito la nostra flora. Le nuove piante introdotte a seguito delle grandi esplorazioni, avevano bisogno di essere acclimatate per potersi riprodurre ed essere classificate; sono state così riscoperte (perché già usate dagli antichi romani)  le serre riscaldate e umidificate, e gli esperimenti per selezionare le varietà più resistenti e più belle.

Infine, per molto tempo, negli orti si sono studiati gli aspetti sistematici evolutivi e gli studenti hanno potuto agevolmente esercitarsi tra le aiuole.

Non bisogna poi dimenticare, oltre all’aspetto didattico, quello della ricerca.

Ultimamente negli orti botanici sta avvenendo quello che avviene negli zoo.

Diventano zone selettive di ripopolamento.

Si è scoperto infatti che l’azione dell’uomo tende a massificare, ad uniformare tutto, a far sparire razze più difficili da coltivare. La monocoltura fa il resto: si scelgono poche cose e sempre quelle.

Ne deriva che gli orti botanici diventano una sorta di sacrario un campo di ricerca per la conservazione della specie e della biodiversità.

Così quando, dopo attenti studi, si sceglie di ripopolare delle aeree con le specie che erano endemiche e ora sono localmente estinte, si ricorre al serbatoio degli orti botanici, alle loro banche di semi, pere recuperare e mantenere la diversità originaria. Ormai la ricerca sugli ecosistemi, le simulazioni per individuare quelli fragili o instabili, l’ampliamento della scelta delle specie tra di loro biocompatibili, ci porta ad affermare che l’orto botanico è un luogo insostituibile di ricerca e un vasto ed enorme laboratorio all’aperto, offerto alla sperimentazione del nuovo ed alla conservazione dell’antico. A questo va aggiunto il senso più ampliato della didattica che è quello dello scambio con i cittadini attraverso la promozione della cultura del verde, anche a tutti i livelli scolastici.

Qui dovremmo parlare di due diversi livelli: da una parte le visite didattiche guidate, quelle delle scuole medie, degli istituti superiori ed i seminari per gli insegnanti di scienze. Dall’altra, quelli che usano l’orto botanico non per il suo valore cognitivo, ma come parco: le famiglie. Le mamme, i bambini, le tate ...

L’apertura a tutti nei giorni feriali e il modico prezzo di ingresso rendono appetibile questo spazio che viene quindi anche utilizzato come giardino pubblico “sicuro”, in cui non girano pedofili e dove la sorveglianza tecnica diventa una garanzia di protezione: un luogo pulito dove portare i bambini sebbene, a volte, siano maldestri e non capiscono quanto sia grave calpestare un prato appena seminato o cogliere fiori e foglie.

Questa non è la tipica destinazione dell’orto botanico, anche perché l’apertura al pubblico significa l’ingresso di una forte pressione antropica con gravi conseguenze fitosanitarie sulle presente vegetali, già tanto provate dall’inquinamento urbano e dalla forte umidità che staziona in questo territorio alle pendici del Gianicolo. Tuttavia anche questa serve, nonostante le controindicazioni, a sviluppare l’interesse del pubblico per il mondo verde e gli scienziati non devono dispiacersene più di tanto mirando a diffondere sempre più il rispetto per le piante ed loro ambiente”.

 

Vi è dunque una specifica attenzione per il pubblico che viene a visitare l’Orto Botanico?

 

“Certo: il verde è un patrimonio culturale e sociale.

Abbiamo pensato anche ai disabili che possono passeggiare comodamente in carrozzine e motorette (ne abbiamo anche ottenute in dotazione) su viali appositamente piastrellati.

In più, recentemente, è stato dimostrato che alcuni disagi psichici di ragazzi caratteriali vengono leniti dal sostare in spazi molto equilibrati, armonici e silenziosi.

Abbiamo anche costruito un giardino per i non vedenti. Nelle zone a misura d’uomo ci sono molte specie che, sia per la loro diversità morfologica e aromatica, che per i loro peculiari adattamenti, hanno raggiunto caratteristiche apprezzabili al tatto ed all’olfatto. Riceviamo anche aiuto e collaborazione da alcune istituzioni private, come il Giardino Romano, la Società  Italiana Orchidee e l’Associazione Amici dell’Orto Botanico. Sono legami culturali forti con gli appassionati di piante che contribuiscono con entusiasmo e apporti di estremo interesse ad un rapporto sempre più intenso dell’Orto Botanico con il pubblico”.

 

Qual è la stagione migliore per visitare l’orto botanico?

 

“Sempre quando esplodono i colori. Quelli dell’autunno, quando gli aceri assumono le loro variegate sfumature dal giallo all’arancio al rosso; oppure in occasione delle fioriture tardive di fine estate, con lo scintillio intenso del giardino dei rododendri. A maggio si può ammirare il roseto, una collezione con circa 60 specie di rose, dalle tradizionali alle ultime creazioni, che dimostrano l’evoluzione del genere Rosa negli ultimi 2000 anni. E poi la serra delle orchidee con circa 400 specie, dalla comune Cattleya fino alle orchidee “falena” o alla stranissima “vanda”, orchidea del sud-est asiatico, dal fusto lunghissimo.

Comunque passeggiate naturali, piene di spunti e di suggestioni si possono compiere in ogni epoca dell’anno.

Ognuno può trovare spazio ai suoi interessi. Attualmente suscitano molto interesse le “succulente” e le “carnivore” che noi ospitiamo nella serra Corsini. Questa vera e propria moda ci ha creato alcune preoccupazioni perché i visitatori tentano di prelevare pezzi di piante o vanno a toccare i delicati meccanismi della Drosera per provare un “brivido vegetale”. Abbiamo quindi dovuto aumentare la sorveglianza.

Recentemente abbiamo ripristinato anche il giardino dei “semplici”, con una bella collezione di 220 specie di piante medicinali, e il giardino roccioso che ospita flora alpina rupicola italiana, asiatica e americana, molto apprezzate sono le serre per le piante tropicali. Poi c’è il giardino zen, tipico per l’essenzialità e la calibratura degli elementi che favoriscono la meditazione. Suscitano meraviglia gli alberi monumentali, come i 2 platani dell’ingresso che sembra risalgano al 1600 e la collezione di palme creata dal Pirotta che è unica in Europa”.

 

Chi era il Pirotta, come e perché impostò questa straordinaria foresta subtropicale?

 

“Pietro Romualdo Pirotta fu il primo direttore dell’Orto  che fuse le due figure, quella di professore di Botanica (titolare in antichi tempi della Lectura Simplicium) e quella del vero e proprio direttore (l’antico Ostensio Simplicium in horto). Dinamico e intraprendente, il giovane professore di Modena ebbe il “grave incarico di creare da uno sterpaio un orto botanico”. Infatti nel 1883 lo Stato italiano (giovane di pochi anni) aveva acquistato la Villa Corsini e il giardino da Don Tommaso Corsini, duca di Castigliano, ed affidò questo spazio al Pirotta.

Questi, prima di tutto, trasportò qui le collezioni di piante allora dislocate a Via Panisperna.

Poi costruì la serra storica ed infine sistemò il Viale delle palme, comprese le whashingtoniane, veri giganti vegetali originali dell’Arizona.

....................... erano il fiore all’occhiello degli orti botanici europei che .................................................................................................................

acclimatarle all’aperto. Funzionalmente molto utili permettevano notevoli effetti paesaggistici in tempi relativamente brevi e distribuivano ................ generose.

Per la sua storia particolare d’altronde, il giardino non ebbe mai una adeguata struttura arborea, se escludiamo la parte più alta, relitto di bosco mediterraneo sempreverde, ancora oggi ben conservata, mentre il parterre ospitò sia giardini all’italiana più o meno curati, sia un grande vigneto acquistato dal cardinale Raffaele Riario.

I Riario cedettero la proprietà ai Corsini che diedero incarico di ristrutturare il giardino ed il palazzo al famoso Ferdinando Fuga.

Le vicende di queste propaggini del Gianicolo si intersecano con le fortune e le mode dei giardini in Italia.

L’inizio dell’avventura della scienza delle piante a Roma, era cominciata con Nicolò III° che, all’inizio del 1300, volle, all’interno delle mura vaticane, il “pomerion” capostipite dei vari giardini vaticani composti da viridarium (alberi), Pratellum (piante erbacee) e fontes (acque).

Così nacque il primo Orto Botanico di Roma”.

 

Dunque quale scenario futuro si profila per lo sviluppo dell’Orto Botanico?

 

“Abbiamo visto come in centocinque anni questa  istituzione sia riuscita non solo a mantenere una sua ragion d’essere, ma anche ad acquisire, oltre alla ricerca universitaria ed alla conservazione del patrimonio vegetale del paese, una funzione di pubblica utilità nella vita delle città.

Certo la sua struttura amministrativa, e la sua eccessiva burocratizzazione, ostacola il suo sviluppo. Se l’Orto Botanico, in quanto museo di piante vive, riuscirà a rientrare nell’ambito della legge Ronchey (regolamento di attuazione della legge sui musei), che dota i musei di statuti propri, si potranno stipulare sponsorizzazioni, convenzioni, appalti e l’attività scientifica potrà godere anche di quei margini di azione autonoma che la renderebbero più viva e vitale.

Possiamo aggiungere che, avvicinandosi il Giubileo, l’Orto Botanico viene a trovarsi in una posizione privilegiata. I suoi spazi sarebbero utilissimi alla nostra città quali sedi privilegiate di conferenze, seminari e convegni con annessi bar, ristoranti e bookshop.

Non dimentichiamoci che, oltre alla funzione conservativa, l’Orto Botanico deve assolvere il ruolo di promotore di nuove idee sul fronte della biodiversità, sulla ridefinizione di una politica ambientale coerente, sullo studio del territorio e del suo ripopolamento arboreo.

Ecco che l’orto botanico di una città come Roma, potrebbe essere cenacolo di scienziati e studiosi, affratellati dalla comune passione per le piante e per la loro vita misteriosa”.

 

 

 

GALATEO VERDE

 

PREFAZIONE

 

Non c’è festa, circostanza, celebrazione privata o solenne che non coinvolga le piante o i fiori. I fiori accompagnano i momenti più importanti della nostra vita, dall’inizio alla fine rappresentando, senza l’ausilio della parola scritta, i nostri sentimenti. Hanno dunque un peso considerevole nei rapporti sociali ; è luogo comune “dirlo con i fiori” : un grazie, un omaggio, un addio, delle scuse, un farsi “presente”.

Così, nei secoli, si è formato un “galateo verde”, anche con il contributo di miti, leggende, tradizioni e arti, dalla pittura alla poesia.

Ma prima di divagare piacevolmente in compagnia di corolle e di petali dai colori delicati e dalle complesse architetture, vogliamo ricordare brevemente quella lunga ed ispirata storia biologica e naturale che ha fatto sì che un giorno nascesse, dall’universo verde del mondo primordiale, dominato dai muschi, dalle alghe, dalle felci e dalle conifere, la prima pianta con un fiore.

Non si sa quando si schiuse e a quale specie appartenesse (forse una magnolia ?) comunque l’evento risale a non meno di cento milioni di anni fa.

E fu una esplosione, perché da allora le fanerogame hanno sommerso il pianeta dettando legge e impadronendosi di gran parte dell’habitat. Le fanerogame, tecnicamente, riescono ad imporsi grazie ad un preciso progresso del sistema di riproduzione, il fiore, quale organo sessuale manifesto che diventa lo strumento privilegiato di questa nuova strategia.

Forme, colori, profumi, pollini odorosi e nettare sono i mezzi di seduzione usati per attrarre gli intermediari necessari a trasportare e ad incrociare i patrimoni genetici. I pronubi sono gli insetti e gli uccelli. Talvolta, anche il vento aiuta le nascite.

Questa realtà, che oggi appare chiara ed evidente, ha però impiegato molto tempo prima di essere capita.

Bisogna arrivare alla seconda metà del ‘600 perché il botanico inglese Nehemiah Grew stabilisse che gli stami erano gli organi maschili del fiore. Linneo, nel 1735, pubblicò il suo “Sistema Naturae” dove gli stami e i pistilli venivano definiti, rispettivamente, mariti e mogli.

A lui si attribuisce così la scoperta della sessualità vegetale. All’inizio, in verità, fu giudicato un pericoloso pervertito, afflitto da vizi e manie. Incompreso, ripiegò tristissimo sui suoi studi, ma i posteri lo chiamano il padre della botanica.

La sessualità vegetale, confinata negli erbari e nei libri di botanica, ha comunque mantenuto la sua distanza dalle cure umane: piante e fiori rimangono, ancora oggi, icone di pura rappresentazione nell’immaginario collettivo. Potenza del simbolo e delle sue arcane leggi.

E se anche un mazzo di fiori biologicamente non è altro che una associazione di organi sessuali, il suo misterioso codice da decifrare rimane pur sempre un omaggio universalmente gradito: tanto è vero dividiamo i nostri gusti con gli insetti.

Anche il linguaggio comune rileva l’influenza delle piante sulla nostra vita. Il fiore ha conquistato il vocabolario: quando le cose vanno bene sono “fiorenti”; il “fior fiore” è sinonimo di eccellenza e il “fiore della gioventù” o il “fiore della nazione” la parte eletta della comunità; essere nel “fiore degli anni” significa essere nel pieno vigore delle forze; parlare “fiorito” è sinonimo di cultura e di sapere; ferite a “fior di pelle” sono danni lievi; son tutte “rose e fiori” le cose che vanno bene e se “son rose fioriranno” quelle che nel futuro, chissà, promettono grandi cose; a “fior di labbra” si sussurra e fior di farina” o “fior di latte” indica la parte migliore di questi alimenti. E che dire dei colori, sinonimi delle rispettive piante: rosa, viola, lillà, arancio, ciliegia e zafferano?

Nello stilare l’elenco dei fiori che avremmo raccontato abbiamo preferito scegliere i più comuni, quelli che comunque troviamo, grazie alle serre, quasi in ogni stagione dell’anno dal fiorista.

Abbiamo aggiunto però le piante di Natale: esse, infatti, rientrano in questo codice floreale perché una forte tradizione le conferma quali doni da scambiare in questo particolare periodo dell’anno. Un’abitudine che sopravvive a sé stessa, ma che può riacquistare vita restituendole, con il senso perduto, la pienezza della virtù originale.

Vediamo quindi, in ogni fiore, la rappresentazione di uno o più archetipi, linguaggi criptici, segni a volte oscuri, a volte divertenti, adombrati sotto veli impalpabili. Se la nostra mente riuscirà a percepire l’oggetto simbolico nascosto, avremo realizzato una più profonda conoscenza di quella lunga storia di convivenza che unisce l’uomo alle piante.

 

 

IL LINGUAGGIO DEI FIORI

 

 Amarillide (orgoglio, bellezza, superbia)                                                           

 Questo fiore appartenente anche alla pericolosa stirpe della Bella donna, è molto usato dai fioristi per la sua altera bellezza e per la sua durata, anche reciso.

Sembra che Amarillide fosse una ninfa splendida, dalla pelle trasparente, sottile, bianchissima e dalle forme voluttuose; così come questo fiore che riesce ad eclissarne ogni altro con la sua bellezza, con la sua imponente maestosità.

Dunque attenzione: un fiore che significa alterigia, distacco e pregiudizio. Insomma, come dire ti ammiro, ma manteniamo le distanze.

  

Anemone (abbandono, fragilità, vedovanza)

 Anche l’anemone viene coltivato con successo e si trova facilmente (da febbraio in poi) per comporre, associato alle margherite bianche, gialle e arancione, le cosiddette “primavere”, ovvero semplici bouquet che, anche in città, ricordano la freschezza della fioritura dei campi.

Il linguaggio dei fiori sconsiglia di regalare mazzi di soli anemoni che, al contrario delle margherite, sono fiori dalla bellezza effimera, facile corrumpitur, il cui significato di fragilità è confermato dalle sue leggende.

Nella mitologenesi di questo fiore si narra infatti che Anemone, bella ninfa alla corte di Flora, signora indisturbata del regno vegetale, avesse fatto invaghire il freddo Borea ed il leggiadro Zefiro, due venti antagonisti che iniziarono a contendersi i favori della bella ninfa, non senza gravi conseguenze di tempeste e bufere.

L’indispettita Flora, allora, chiuse la malcapitata Anemone in un incantesimo incatenandola ai suoi due spasimanti: la corte di Zefiro l’avrebbe fatta schiudere, mentre le violente carezze di Borea avrebbero disperso nell’aria ancora fredda le fragili corolle ametistine.

Così questo fiore, figlio del vento e del vento dolcissima vittima, rimane simbolo della caducità delle cose e dell’abbandono.

Ecco perché per gli Egiziani e gli Etruschi era il simbolo della città dei morti e spesso, nell’iconografia medioevale, viene ritratto ai pedi della croce.

“Passato di moda”, per molto tempo era tornato ai suoi rustici dialoghi nei boschi, per risorgere a nuova vita in epoca romantica e con i preraffaelliti, oggetto di versi delicati e malinconici e effigiato nelle splendide tavole di Sir Lawrence dedicate a Alma-Tadema.

Desolato

Dolce fiore! che fai capolino dal tuo stelo rossiccio

                        E timido ti schiudi (perché - è strano -

Questo mese che batte i denti, buio, intabarrato e rauco

                        La voce di Zefiro ha rubato e con voluttuoso

Occhio azzurro ti ha fissato), ahimè, povero fiore!

                                                           (Samuel Taylor Coleridge 1772-1834)

  

Camelia

Camelia bianca (amore materno)

Camelia variegata (amore fiducioso)

Camelia rosso chiaro (inganno)

Camelia rosso scuro (speranza timida)

Camelia rosa (promessa d’amore)

 Qui non ci sono metamorfosi di ninfe, né ombre danzanti del Parnaso, perché la camelia è un fiore orientale, coltivato con passione in Cina dove si chiama T’è come da noi la bevanda nazionale anglosassone.

Arrivò in Europa nel 1700 attraverso i buoni uffici di Jeorge Kamel, missionario gesuita appassionato cacciatore di piante, da cui anche il nome botanico “camelia Japonica”. Nonostante la breve convivenza con la nostra cultura, la camelia, grazie a Marguerite Gautier, è intimamente legata alle vicende d’amore, siano esse segrete e misteriose, siano esse impossibili, peccaminose, furtive, proibite o fatali.

L’eroina del libro francese indossava solo camelie, unici fiori che non la facessero tossire. Bianche per venticinque giorni al mese e rosse per i rimanenti cinque ...

“Una eccentricità che io onoro senza poterla spiegare” come maliziosamente racconta Duval, l’amante di Marguerite. La grande fortuna di queste piante, sostenuta dal romanzo di A. Dumas figlio e dalle note della Traviata di Verdi, non sembra avere fine. Contesa dalle corti europee, che ne possedevano intere collezioni, continua ad essere ibridata, incrociata e perfezionata in una ricerca senza fine dell’esemplare perfetto. Può essere donata come esemplare raro e come omaggio per amori languidi e romantici.

  

Gardenia (avvenenza, eleganza, savoir vivre)

 Anche lei di origini lontane, prende il nome dal botanico del ‘700 Alexander Garden. Pianta di fiori splendidamente profumati, si moltiplica in circa 250 specie, ma nonostante il profumo intenso e seducente, è sempre assolutamente sconsigliato come omaggio d’amore e negli incontri al lume di candela.

Diciamo che è un fiore mondano destinato ai frivoli scambi in società.

Questo dice la pratica, perché qui non ci soccorre nessun mito.

  

Garofano

Garofano rosso (amore impetuoso e passione politica)

Garofano striato (amore fiducioso, ma, attenzione, anche rifiuto)

Garofano giallo (sono arrabbiato e sdegnato, disprezzo)

Garofano bianco (fedeltà)

 Nonostante la sua associazione con il più comune e immortale dei sentimenti d’amore, il garofano mantiene sempre una connotazione riservata e pudica, quasi votato a casti dialoghi.

Sembra che Diana, dea della caccia costretta alla verginità, si fosse incapricciata di un pastorello bellissimo. Non potendolo mare, lo accecò affinché lei fosse l’ultima donna che aveva visto al mondo.

Gli occhi del perduto bene si trasformano in due garofani bianchi ; ancora oggi, in francese, garofano si dice oeillet, occhiello, mentre l’abitudine antica di farne festose corone ha dato il nome inglese di carnation.

Dopo il medioevo, il garofano è divenuto il fiore ufficiale dei monarchici e durante la rivoluzione francese i nobili venivano portati alla ghigliottina con un garofano bianco. Invece quello rosso prosegue la sua stagione di passione politica nell’’800, quale emblema dei partigiani di Napoleone prima e dei socialisti dell’epoca poi.

Oggi il garofano rosso, come simbolo politico, sta passando alterne fortune, ma rimane nelle nostre case come fiore duraturo e aromatico, compagno di quotidiane battaglie.

Geranio

Geranio edera (fedeltà)

Geranio scarlatto (stanchezza)

Geranio rosso fiamma (conforto)

Geranio rosso scuro (malinconia)

Geranio rosa (“voglio solo te”)

 Era una pianta molto diffusa in epoca greca, tanto è vero che il suo nome non vanta nobili natali, ma vuol dire “becco di gru” dalla forma dei carpelli dei semi che terminano con un rostro piumato anche nelle specie più comuni. Qualcuno (Madame Di Stael, per esempio), li ha criticati per l’assenza del profumo ; qualcun altro, come Maometto, li trovava molto salutari, ma sembra che S. Ildegarda, nel XII secolo, li raccomandasse in decotto per le loro proprietà emostatiche e antinfiammatorie.

Sono utilissimi nel tenere lontane le zanzare.

  

Giglio

Giglio bianco (innocenza, purezza, candore)

Giglio giallo (maestà, grandezza)

Giglio rosso (vanità)

 Anthos anthèon, fiore dei fiori. Con il giglio torniamo nell’ambito dei fiori epici, quelli che hanno ispirato mistici, santi e poeti. Il giglio divide, con la rosa, il favore degli artisti per le sue valenze simboliche a causa di due caratteristiche : la sua fecondità e il candore straordinario dei suoi petali.

In realtà il giglio è un fiore impudico, che esibisce il suo pistillo al di sopra di tutti gli stami, ma lo fa in un tale contesto di grazia e armoniosa bellezza, da trasformare il concetto di fecondità, inteso come sensuale abbraccio voluttuoso in specchiata virtù intesa come negazione del piacere. Scendiamo più a fondo in questi significati bipolari.

Prima di tutto è un fiore sacro ai culti femminili primigenii. Era famosissimo a Babilonia dove risulta ispiratore sia delle sculture a intaglio dei bastoni del comando, sia delle volute dei capitelli dei templi. Alcuni ritengono che fosse proprio il giglio il fiore di ambrosia degli dei immortali dell’Olimpo greco. Non era forse nato dal latte che Era, inavvertitamente, lasciò cadere a terra, morsa da Ercole neonato, mentre con l’inganno lo rendeva immortale ?

A Roma il suo nome era Junonia rosa, consacrato alla dea della fecondità.

L’Antico Testamento eleva il giglio a simbolo spirituale, anzi a fioritura e crescita della parola di Dio in seno al suo popolo. Nel Nuovo Testamento invece, Gesù dice : “E perché vi affannate per il vestito ? Osservate come crescono i gigli del campo : non lavorano, né filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestirà come uno di loro ...”

Abbandono dunque alla provvidenza e alle sue leggi. Compare infatti, nell’iconografia alto-medioevale, in mano all’Arcangelo Gabriele che lo offre alla Madonna quale muto pegno della volontà di Dio, consacrandone contemporaneamente la virginale maternità.

Da usare come nobile omaggio alle persone giuste e a tempo debito.

  

Iris (fatalità, buone notizie)

 A Firenze, nelle riservate officine di Santa Maria Novella, dove le erbe messe a seccare e gli ingredienti degli alchimisti si preparavano a diventare le migliori medicine dell’epoca, arrivavano sin dal secolo scorso numerosi carri colmi di radici di Iris raccolte sulle colline circostanti. Qui giunti, i grossi rizomi venivano messi a seccare e trasformati in polveri. Queste servivano per aromatizzare liquori, per togliere odori cattivi, per fabbricare ciprie, per preparare medicine e supplire la Violetta di Parma di cui, ancora oggi, l’Iris è il migliore e quasi inconfondibile sostituto.

L’antica e gloriosa industria nonché l’abbondanza e la bellezza dei fiori fecero sì che i fiorentini finissero per affezionarsi all’Iris e per associarlo alla loro vita cittadina ; che l’iris e non il giglio sia l’emblema di Firenze lo attesta anche il suo nome botanico Iris Florentina. Rosso in campo bianco o bianco in campo rosso, secondo il partito dominante, esso fu sempre l’unico valido simbolo della città e nel suo segno Firenze conquistò la libertà e l’onore. L’iris però ha una storia molto più antica. Già gli Egiziani ne coltivavano numerose varietà sulle sponde del Noli ed i Greci ne ammiravano gli esemplari più belli e variopinti fra le rupi e le pietre dei templi. Fu anzi la loro fantasia a vedere nei petali variegati e cangianti la messaggera degli dei, Iride, che, sciolta la siarpa multicolore, scende dall’Olimpo scivolando sull’arcobaleno.

  

Margherita (innocenza, pensiero, grazia, bontà, candore)

 Chi vede mai le pratelline in boccia?

Ed un bel dì le pratelline in fiore

Empiono il prato e stellano la roccia.

Chi ti sapeva, o bianco fior d’amore

Chiuso nel cuore? E tutta, all’improvviso,

la nera terra ecco mutò colore ….”

                                                            (Pascoli)

Fiore comune nell’area del Mediterraneo che appare all’improvviso nei prati annunciando i primi tepori della primavera. Contiene nel simmetrico avvicendarsi e sovrapporsi dei petali il significato del rinnovamento dell’anno.

Bellis perennis in latino, margherita in italiano, daisy in inglese (cioè day’s eye), “occhio del giorno” perché sboccia al mattino e alla sera chiude i suoi petali in un sonno vegetale.

Un’usanza scozzese raccomanda ai bambini di non raccogliere mazzolini ad occhi chiusi, perché il numero dei fiori del mazzetto corrisponde al numero di anni che dovranno aspettare per sposarsi. E chi non si ricorda il semplice oracolo verde dei nostri primi amori : “m’ama o non m’ama “ ?

Dono innocente, un pegno non impegnativo.

  

Orchidea (la bellezza assoluta e la bellezza dissoluta)

 Non si riesce a parlare dell’orchidea (poche le specie coltivate nei confronti delle 30.000 selvatiche) senza incontrare argomenti scabrosi perché nella sua morfologia, nei suoi colori e nei suoi vezzi, più di ogni altro fiore, richiama alla mente la sensualità.

Tra l’altro la parola orchidea può derivare da orchis, testicoli. Infatti nei casi in cui il fiore, per moltiplicazione dell’apparato sotterraneo, si riproduca indipendentemente dal seme, lo pseudo tubero dell’anno precedente, a fianco a quello attivo nell’anno in corso determina una formazione che ricorda molto i testicoli, sia per la rugosità che per il colore.

Nel medioevo, non solo il nome volgare era testicoli di toro, ma, per il noto principio della magia imitativa, i tuberi dell’orchidea, variamente trattati, venivano ampiamente richiesti nella composizione di bevande e cibi afrodisiaci, filtri di giovinezza ed elisi d’amore.

Una seconda etimologia favoleggia di un bellissimo giovinetto dell’Epiro, un certo Orchide, che iniziò a vedere segni di crescita di ambedue i sessi sul suo corpo.

Sconcertato dalla sua ambigua natura, offeso e dileggiato dai suoi coetanei, si buttò disperato da una rupe. Dal suo sangue, racconta la leggenda, spuntarono e i fiori bizzarri delle orchidee.

La struttura di questo fiore è fatta in modo tale che gli stami ed i pistilli devono ricorrere assolutamente all’impollinazione degli insetti. Questi vengono richiamati dalle forme e dagli odori che le orchidee sono in grado di cambiare dal giorno alla notte, imitando mughetti, rose o lillà, a seconda dell’insetto che devono attrarre.

Dobbiamo allo spirito di osservazione di un magistrato la più sconcertante scoperta intorno a questo fiore.

Nella molle cornice assolata di Algeri, durante le ore della siesta (erano i primi del ‘900, il 1916 per l’esattezza), il magistrato francese Francis Pouyanne cominciò ad osservare i movimenti che un vespone maschio compiva nel labello invitante di una Oprys Speculum. Guarda che ti riguarda, l’etologo dilettante si accorse che le spinte e le contrazioni dell’insetto non erano gesti aggressivi di violenza gratuita, ma veri e propri tentativi di copula. Pouyanne, dopo aver acquisito le certezze delle sue osservazioni, le comunicò alla comunità scientifica con regolari relazioni. Trent’anni dopo la maggior parte dei botanici, tra cui lo svedese Kullenberg fu costretta ad ammettere che non solo il labello mimetico imita nelle forme e nei colori il seduttivo apparato sessuale femminile dell’insetto, ma anche la disposizione della peluria ed il profumo emanato. Irresistibile. Il risultato della pseudo copula è che il polline si attacca sulle varie parti della vespa sedotta ma non soddisfatta, che continua frustrata la sua ricerca posandosi su altre orchidee e fecondando così fiori lontani, ma ugualmente attraenti.

Per riprodursi le orchidee si servono dunque di intermediari e rimangono belle, fresche e invitanti spesso anche per diversi mesi (fino a tre) se non sono toccate dal volo dei pronubi. Quando il fiore viene fecondato, sfiorisce immediatamente producendo una grandissima quantità di minuscoli semi. L’incanto è finito.

Fiore ambiguo : maschio per segnatura testicolare, femmina per capacità di seduzione e morfologia, l’orchidea rimane un “fiore da scollatura”, una rarità dedicata a signore esigenti o a case opulenti e dai saloni ampi e sontuosi, o, infine, alle serre di coltivatori pazienti come Nero Wolfe.

 

Narciso (fedeltà, autocompiacimento)                                                              

 “ ... Richiesto il profeta Tiresia

se quel fanciullo poteva vedere la tarda vecchiezza,

così rispose : se non mirerà mai sé stesso !” ...

                                                                    (Ovidio)

 

“A malapena passati i tre lustri, lo desideravano molti giovani e molte fanciulle, ma nella sua tenera forma non ci fu alcuno che lo toccasse.

Un giorno era presso una limpida fonte dall’acque argentine. Qui riposò dalla caccia e dal caldo il fanciullo Narciso ; ma mentre spegnere vuole la sete, sorpreso dal volto riflesso nell’onda, gli occhi contempla che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e d’Apollo e l’impuberi guance e le rosse labbra e il collo d’avorio e il candore vermiglio del volto. Senza saperlo desidera sé e dall’amore vinto si strugge Narciso, consunto da lenta passione. Poi reclina sovra l’erbe la testa sfinita, e la morte chiude gli occhi che furono folli di sé per l’amore.

Lo piansero le due sorelle Naiadi che gli offrirono recise le chiome sul rogo. Pianser le Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti. Già preparavano il fuoco e la bara ; ma più non c’era il corpo ; trovarono, dove giacea, croceo fiore recinto di candide foglie nel mezzo”.

Questa citazione è soltanto un riassunto della lunga storia che Ovidio narra nelle “Metamorfosi” è uno degli episodi più belli e toccanti della mitologia classica.

 

 

Peonia (nobiltà, raffinatezza, vergogna, invidia)

 La peonia orientale, quella che con le ricche corolle delicate e preziose guarnisce raramente le mostre dei nostri fioristi, era fino alla fine dell’800 privilegio delle famiglie nobili e dei mandarini nella Cina dei celesti imperatori.

Cantata dai poeti come “rosa esagerata, rosa dionisiaca, rosa superba, rosa senza spine ...”. deborda dalle boule trasparenti dei pittori preraffaeliti accompagnando voluttuosi abbandoni e riposi leggiadri di bellezze dalle lunghe chiome.

La tradizione popolare delle nostre campagne la vedeva quale rimedio medicinale e duraturo contro l’epilessia, la pazzia e alcune inspiegabili febbri dei bambini. Gli si attribuivano poteri immensi, come guarire orrende ferite e, addirittura, far resuscitare i defunti. Tale convinzione traeva origine da quanto narrato da Plinio il vecchio, secondo cui Peone, figlio di Asclepio, dio della medicina e anche lui ottimo guaritore, dovette rifugiarsi nel fiore superbo, con una salvifica metamorfosi, per salvarsi dalle ire del maestro padre di cui aveva superato l’arte.

Fiore difficile da coltivare e, se reciso, di breve durata. Un omaggio prezioso e raro.

  

Rosa

Rosa bianca (purezza)

Rosa gialla (infedeltà)

Rosa selvatica (poesia)

Rosa rossa (passione)

Rosa rosa (amore nascente)

Rosa screziata (armonia e voluttà)

 Per cercare i segni dell’origine delle rose, bisogna risalire al Giardino Terrestre, quando, prima del peccato originale, la regina dei fiori imperava senza spine.

Almeno a sentire Sant’Ambrogio che, nell’Acta Sanctorum, così dice “il più bello dei fiori sbocciava a primavera senza ferire l’altra mano che lo coglieva ...”.

Un poeta persiano ammonisce “Se hai due soldi spendine uno per il pane, con l’atro compra rose per il tuo spirito.

Amore terrestre e amore celeste sono gli argomenti della storia della rosa, in cui sacro e profano si intrecciano continuamente.

Sembra che Clori, dea dei fiori, ebbe bisogno di un consesso di dei per creare la rosa : ad Afrodite chiese la bellezza, a Dioniso il nettare per il profumo, alle tre Grazie fascino, splendore e gaiezza, ad Apollo la luminosità e, a Zefiro, una vita senza nuvole. Tanta bellezza non poteva che essere dedicata ad Afrodite, che, all’inizio, si fregiava infatti di rose bianche.

Purtroppo sia lei che Persefone si contendevano i favori di Adone, un giovane avvenente che, invece, stava bene con tutte e due. Quando in una contesa d’amore senza esclusione di colpi una delle due lo sequestrò in un bosco, impedendogli il ciclico avvicendamento, l’equilibrio si ruppe e il dio della guerra, sotto le sembianze di un feroce cinghiale (anche lui aveva i suoi motivi di gelosia) ebbe così modo di ferire a morte  l’audace giovinetto. Afrodite accorse nella selva lacerandosi le vesti per soccorrerlo e lo trovò morente vicino ad un cespuglio di rose bianche che si tramutarono in rosse dalla sua passione d’amore fatale.

Dunque fiore caro agli dei, ai re ed alle regine. Cesare faceva intrecciare ghirlande di rose per il suo capo, mentre Cleopatra dormiva su materassi di rete imbottiti di petali di rose sempre freschi e pretendeva che le vele delle sue navi personali fossero intrise di olio di rose perché, con il vento, un intenso profumo annunciasse l’arrivo della regina d’Egitto.

Con le rose i romani aromatizzavano vino e miele, preparavano dolci e focacce.

In epoca repubblicana l’uso delle rose era austero e limitato al giorno dei trionfi (le corone non erano di alloro ma, come abbiamo visto per Cesare, erano di rose), all’ornamento della casa, delle tombe ed alle ghirlande per gli innamorati.

In epoca imperiale, complice l’introduzione di fastose abitudini orientali, l’utilizzo del fiore divenne esagerato. Navi cariche di rose giungevano da Alessandria, sulla costa nord-africana, mentre a Roma le serre, coperte con tetti di selenite (gesso in forma di cristalli chiari, incolori) e riscaldate da tubazioni di acqua calda, garantivano la fioritura delle rose anche in inverno.

Stanze con pavimenti ricoperti di petali di rose che arrivavano fino al ginocchio, materassi e cuscini riempiti di petali e fontane nelle quali scorreva acqua di rose, non erano insoliti.

Il poeta romano Orazio osservava che i fertili campi d’Italia erano stati trasformati in roseti; gli ulivi venivano trascurati a favore di rose e viole. Un tenore di vita tanto lussuoso non giovava certo all’economia, come fa notare con arguzia Marziale: “Oh ! Egiziani, inviateci il grano, e noi vi spediremo le rose in cambio!

Nell’81 d.C., durante il regno di Domiziano, si diceva che a Roma il profumo delle rose fosse opprimente.

Il 23 aprile, le etere sfilavano per la Città Eterna adornandosi di corone di rose e mirto in onore di Venere Erycina. In Grecia, Solone costrinse le donne di vita ad indossare vesti colorate e da allora, tra la rosa e chi vende l’amore, rimane un legame molto forte tanto che, non solo nel Medioevo, le prostitute erano obbligate a portare una rosa al seno (in Francia erano chiamate roses).

Nella puritana Inghilterra, fino ad un secolo fa, la lettera scarlatta, derivata dalla rosa, era segno d’infamia. Ancora oggi, “vicolo della rosa” o “via della rosa” ricordano strade in cui erano collocate case chiuse.

Rosa profana era quella cantata dai trovatori, tutti presi dall’amor cortese dove il bocciolo da schiudere e la rosa purpurea da rubare simboleggiano il raggiungimento dell’intimità.

E ci piace chiudere questa divagazione sulla rosa profana con un brano di D’Annunzio tratto da “il Piacere”:

“ ... Ella entrò portando nella sopravveste e tra le braccia un gran fascio di rose rosse, bianche, gialle, vermiglie, brune. Alcune, larghe e chiare come quelle di villa Pamphili, freschissime e tutte imperlate, avevano un non so che di vitreo tra foglia e foglia; altre avevano petali densi e una dovizia di colore che faceva pensare alla celebrata magnificenza delle porpore d’Elsa e Tiro; altre parevano pezzi di neve odorante e facevano venire una strana voglia di morderle ; altre erano di carne, veramente di carne”.

Carlo magno imponeva ai conventi nei suoi “capitolari”, di coltivare nell’orto insieme ai “semplici”, cioè piante medicinali e aromatiche, anche i gigli e le rose e questo grazie ad un particolare rapporto che egli aveva con questo fiore, al quale era particolarmente affezionato. Fu così che fece piantare un roseto nel chiostro della cattedrale di Hiendesheim, nella bassa Sassonia.

Il rosaio di Carlo Magno visse bene fino al 1880 (cioè ben mille anni) quando furono necessarie alcune bonifiche. Nella seconda guerra mondiale la città fu bombardata. Quando, con la fine delle ostilità, si iniziarono i restauri del Chiostro della cattedrale, ci si accorse che le radici delle piante di Carlo Magno erano ancora sane. Infatti, nello spazio di poco tempo, la pianta rifiorì.

La perfezione della simmetria del fiore, la sua struttura concentrica, l’avvolgersi dei suoi petali verso il cuore del fiore, la sua effimera bellezza “Rosa simil florunt et statim peruit”, evoca il ciclo vita-morte-vita, la ruota del tempo che passa e ripassa, intorno al suo centro vitale da identificare nel Cristo Pantocrate. L’Uno dal quale trae origine la molteplicità, il cosmo.

Complicate simbologie che solo profondi studiosi di teologia potrebbero spiegare, associano le rose al fuoco dello Spirito Santo.

Ma proprio dal centro di culto di Chartes, cattedrale gotica dai rimandi templari, prende il via il ricongiungimento tra i culti della Grande madre precristiana e la Santa Vergine, la madre di Dio e la rosa diventa mistico simbolo di integrità originale e conoscenza assoluta.

  

Tulipano

Tulipano rosso (dichiarazione d’amore)

Tulipano screziato (onestà)

Tulipano giallo (amore disperato)

 Il tulipano è un simbolo d’amore nato nel Medio Oriente: nelle Mille e una notte gli amanti si offrono tulipani quale segno di passione vicendevole; ancora oggi, in Iran, il tholypen è il fiore del primo amore.

“Tulipant” è una parola persiana che indica un turbante e questo sinonimo fu comunemente accettato nelle corti d’Europa in cui la coltivazione si diffuse da Vienna, dove l’ambasciatore Ogier de Busbecq lo importò da Costantinopoli. Fino all’Olanda.

Ma all’inizio non fu tutto così facile. Infatti i cacciatori di piante partivano dalla Turchia con i bulbi chiusi nelle valigette diplomatiche per raggiungere, a Bruges, la casa della famiglia Van den Beurse. All’inizio sia le piante che i tuberi venivano fisicamente importati poi, per paura dei furti, si cominciò a contrattare per procura e con lettere di credito.

Sembra che da questi scambi fiorenti e da queste contrattazioni sia nata quella che oggi è la borsa. La febbre del tulipano provocò ricchezze incredibili e altrettanto rovinose perdite ai mercanti che ne avevano gonfiato troppo le quotazioni. Si racconta di gente disposta a pagare una follia per un solo bulbo; questa mania che colpì l’Olanda è molto ben raccontata da Dumas padre nel romanzo “Il Tulipano nero”.

Si scommetteva sul colore delle varietà, sulle novità selezionate e, mentre i fiamminghi facevano trionfare i tulipani nelle loro composizioni artistiche, in Francia costituivano anche oggetto di dote : pochi bulbi potevano valere il matrimonio di una fanciulla in “fiore”.

 

 

Viola (pensami, sono modesto ma ..., tranquillità del cuore)

 Viola adorata, viola tricolor, viola mammola, la “panzè”, ovvero la pansée dei francesi, vellutato segnalibro romantico che trascolorava nei libri delle nostre nonne.

In memoria di un amore che si voleva “eterno” era di moda, agli inizi del secolo, attribuire alla viola proprietà di Talismano della fedeltà: “l’amore non ti abbandona finché la viola ti accompagna”.

Pianta mediterranea assai popolare anche nella “Arcadia classica”, complice un’intrigata metamorfosi di Io, la ninfa amata da Giove e costretta, dalla gelosia di Giunone, a pascolare nei prati di viole trasformata in bianca giovenca, per nascondere l’infedeltà dello sposo reale. “Nel prato fiorito ruminando violette la povera Io attendeva l’amore”.

Comunque sia, i miti delle origini sono complicatissimi e non ci portano ad una più profonda comprensione del significato simbolico della viola. Gli Ateniesi si fregiavano del titolo: “coronati di viole”.

La viola mammola era nobile serto anche di molte dee : Venere, Teti e Core, e i romani festeggiavano il 22 marzo il dies viola con grandi e lussureggianti processioni. Le mammole, secondo gli antichi, avevano anche proprietà medicinali come quella di allontanare, insieme all’edera, l’ubriachezza, per cui festoni di viole e di edere adornavano i saloni dei banchetti e manciate di petali venivano versati nelle acque dei lavacri ambulacrali.

Sembra che l’associazione con la modestia sia da attribuire al fatto che la viola mammola si nasconde sotto le sue foglie: “come la viola sta nascosta spargendo i suoi profumi, così la modesta fanciulla non s’eleva a superbia allorché vantano le sue doti e le sue bellezze”.

Ma Trilussa, nel sonetto “La violetta e la farfalla” non era d’accordo:

 

Una vorta, na’ farfalla

mezza nera e mezza gialla

se posò su la Viola

senza manco salutalla ...

... Quanto sei maleducata!

M’hai pijato gnente gnente

per un piede d’insalata ?

Io so’ er fiore più grazioso

più odoroso de ‘sto monno ...

... so’ modesta e me ne vanto!...

... appassita, so’ un ricorso;

secca, curo er raffreddore ...

Tu d’artronde , sei ‘na bestia,

nun capischi certe cose ...

La farfalla j’arispose:

Accidenti, che modestia!

  

Piante di Natale

Abete, agrifoglio, pungitopo e vischio

Per anni nessuno si è chiesto perché l’abete sempreverde, l’agrifoglio dalle foglie screziate, arricciate e dalle bacche rosse ed anche il più severo e scuro pungitopo, siano le piante che accompagnano le nostre feste d’inverno : quei dodici giorni e quelle dodici notti sante che separano l’anno vecchio dal nuovo, magico spazio temporale consacrato ai rituali di rinnovamento.

  

Abete (elevazione, guarigione, vita superiore)

 Nei freddi inverni del centro-europa, quando tutte le latifoglie hanno perso le loro fronde, rimangono solo le conifere a verdeggiare sempre più intensamente, manifestando la vita che prosegue nella desolazione delle nebbie e del freddo.

Si crea così un forte legame tra il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno ed il più corto d’inverno, e l’abete consacrato al fanciullo divino, quel sol invictus che dal 22 in poi ritorna sulla terra ogni giorno con più forza e più luce a confermare la vittoria sulle tenebre. Albero della vita, albero cosmico, segno centrale e assoluto dell’unione tra l’uomo e il cielo: le radici nella terra sono il passato e la chioma, in alto, il futuro.

Ma fu una duchessa tedesca ad introdurre l’abitudine di decorare l’abete con ghirlande, fiori, miele ed alcune piccole candele portandolo nella domestica sicurezza delle case. E ancora oggi il casalingo albero di Natale riproduce, inconsapevolmente, quegli antichi significati divenuti sempre più cristiani: così la luce dell’albero è quella dispensata dalla ricorrenza della nascita del Cristo; i regali, i dolci e il radunarsi della famiglia intorno all’albero rappresentano l’attesa dell’amore, dispensato dal bambino Gesù.

Agrifoglio (difesa, precauzione)

Pungitopo (previdenza

 Nei giorni tra il 17 ed il 23 dicembre, in tutto l’Impero Romano, era di rigore osservare la ricorrenza dei Saturnali in onore dell’antico dio dell’età dell’oro. Tutti portavano in giro ramoscelli di agrifoglio e di pungitopo, sempreverdi dalle bacche rosse e dalle foglie pungenti e vitali in qualità di amuleti solstiziali.

Seguendo i principi di una magia imitativa, si credeva che queste piante difendessero, con le loro spine, dalle presenze negative di folletti e spiriti maligni. E questa proprietà, nel tempo, è stata prosaicamente applicata anche dai contadini che, nelle cantine, ricoprono formaggi, salumi e prosciutti con un folto intrico di aculei verdi per difendersi dai topo: da cui il nome.

Ma i Saturnali meritano ancora qualche riga ...

Erano giorni di grandi bagordi per gli antichi romani, durante i quali si recitavano i fescennini, poemi erotici. Tutti se la spassavano: orge alimentari, sociali e giochi d’azzardo hanno stupito per secoli gli storici dell’alto medioevo. Servi e padroni si scambiavano i ruoli (e spesso anche le mogli) e tutta questa gran confusione avveniva in memoria di un periodo passato, quando tutti gli uomini erano uguali, buoni e pacifici. Ai bambini erano destinati doni e statuette, “sigillaria”, pani dolci, come biscotti con fior di farina e miele, dalle forme piè strane.

Inutile dire che si beveva a crepapelle. L’arrivo del cristianesimo segnò il tramonto dei Saturnali e dei riti pagani del solstizio d’inverno ; cominciarono ad essere proibiti i giochi tanto cari al popolo, finché questo divieto divenne editto sotto Costantino. Sarà, ma il fuoco ha covato sotto la cenere e ancora oggi, nei ... trasformati in festività natalizie, non riusciamo a fare a meno di tombole, mercanti in fiera e di mangiate pantagrueliche, insomma di orge, almeno alimentari. Agrifoglio e pungitopo rimangono, dopo duemila anni, ancora le piante che nel mese di dicembre portiamo nelle nostre case.

  

Vischio (vinco tutto, supero ogni avversità)

 I Druidi e i falcetti d’oro sono diventati popolari per merito delle avventure di Asterix, Obelix e del loro sacerdote Panoramix in Britannia.

Ma i poteri del vischio, trovato addirittura nelle tombe degli Etruschi e degli Egiziani, risalgono all’alba della civiltà. Oggetto di venerata superstizione, era considerato rimedio di ogni male, “pianta che guarisce tutto”; epilessia, ulcera, sterilità e zitellaggio.

Sacro dalla Cornovaglia fino al Giappone, passando per il Caucaso, la pianta “celeste” che vive e si riproduce senza la schiavitù della radice, grazie al suo rapporto simbiotico con gli alberi (pino silvestre, quercia ed alberi da frutto), è simbolo per eccellenza di forza, resistenza e vittoria sulle avversità. Viene anche chiamato “scopa del tuono” e, come dice il Frazer, sembra contenere la “semenza del fuoco”, per cui la tradizione popolare vuole che un ramo di vischio protegga la casa dagli incendi. Plinio, la nostra maggiore fonte di informazione sui riti dei celti al solstizio d’inverno, racconta come i Druidi, sacerdoti e maghi misteriosissimi e silenziosi, ritenessero la pianta figlia del fulmine: essa nasceva là dove la folgore era caduta. Siccome il fuoco celeste era la voce della divinità, la pianta acquistava il significato di immortalità e resurrezione, soprattutto se l’albero ospite era il rovere, quercia forte ed invincibile.

Oggi possiamo solo immaginare la scena: i boschi sacri nel loro silenzioso abito invernale, la processione dei Druidi che il giorno del solstizio d’inverno procedono con gravità ; il vischio sarà reciso da un falcetto d’oro e non toccherà mai la terra, mentre ai piedi dell’albero si imbandiranno sacrifici e si legheranno per la prima volta le corna di due tori immacolati.

Anche Virgilio parla del vischio in una discussa similitudine in cui lo si paragona al ramo d’oro necessario ad Enea per scendere nel regno dei morti a riabbracciare il padre, sopravvivendo a questa esperienza.

A noi basta appenderlo sopra la porta e ...“Vieni con me sotto un ramo di vischio e lasciati baciare. Il domani è per noi una promessa e non importa se i giorni saranno grevi o chiari, oggi tutto ha un riflesso di luna” (Steve MacGoy).

 

Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" gennaio/dicembre 1998