Giurisprudenza Romana
con nota di A. Costantini
Trib. di Roma - Sez. fall. - decr. 3.6.1996 - Pres. Grimaldi - Est. Norelli.

DECRETO LIQUIDAZIONE COMPENSO CURATORE - MODIFICAZIONE - AMMISSIBILITÀ. (artt. 23,39 L.F.; 742 cod. proc. civ.)

Il decreto del Tribunale fallimentare di liquidazione del compenso del Curatore è modificabile dallo stesso Tribunale per fatti sopravvenuti, fino a che non sia dichiarata la chiusura del fallimento.[1]

 II 

Trib. di Roma - Sez. falli. - decr. 23.9.1996 - Pres. Grimaldi - Est. Norelli.

FALLIMENTO - COMPENSO CURATORE - REVOCA FALLIMENTO - OMESSA INDICAZIONE DEL SOGGETTO CHE DEVE SOPPORTARE LE SPESE - SUCCESSIVO ACCERTAMENTO IN CONTRADDITTORIO - NECESSITÀ (artt. 21, 39 L.F.)
FALLIMENTO - COMPENSO CURATORE - REVOCA FALLIMENTO - CESSAZIONE ANTICIPATA DALLE FUNZIONI - LIQUIDAZIONE - ATTIVO REALIZZATO - NOZIONE.  (artt. 21, 39 L.F.)

Nel caso di revoca del fallimento senza condanna del creditore istante ai danni per aver chiesto la dichiarazione del fallimento con colpa ed altresì senza pronuncia a carico del fallito in ordine alle spese di procedura e al compenso del curatore, non viene meno il dovere del Tribunale fallimentare di liquidare le spese di procedura ed il compenso al curatore, salvo il diritto di quest’ultimo di agire in via ordinaria per conseguire quanto liquidatogli nei confronti di chi, in quella sede, sia riconosciuto civilmente responsabile della dichiarazione di fallimento poi revocata. [2]
Nel caso di cessazione anticipata dalle funzioni, il compenso del curatore va calcolato in proporzione alle operazioni procedurali effettivamente compiute, ai risultati ottenuti, all’importanza del fallimento ed alla sollecitudine con cui sono state compiute le operazioni. Per attivo realizzato deve intendersi la totalità delle somme liquide incassate dal curatore, fatta eccezione per quelle ricevute in base ad un titolo che comporti un obbligo di restituzione. [3]


(omissis) Rilevato che, con precedente decreto di questo tribunale in data 20/21. 1. 1994, è stato liquidato il compenso dovuto al curatore istante in complessive lire 9.000.000 (di cui lire 7.700.000 per compenso sull’attivo realizzato e lire 1.300.000 per compenso sul passivo accertato), oltre alle spese vive per lire 1.193.272 ed al rimborso forfettario per lire 450.000; che, successivamente, il curatore ha incassato la somma di lire 30.438.000 per rimborso IVA e ha chiesto la liquidazione di un compenso aggiuntivo su detta somma;
considerato che, per effetto dell’incasso da ultimo compiuto, si è incrementato l’attivo realizzato, in relazione al quale è stato liquidato il compenso al curatore; che il mutamento della situazione di fatto, sulla base della quale è stato adottato il precedente provvedimento di liquidazione, giustifica una modificazione del provvedimento medesimo; che deve, dunque, procedersi a ricalcolare il compenso de quo in relazione al maggior ammontare dell’attivo ad oggi realizzato; ritiene che la modifica del provvedimento di liquidazione del compenso al curatore è ammissibile, trattandosi di un decreto pronunciato in camera di consiglio che non si sottrae alla regola generale della revocabilità e modificabilità ex art. 742 cod. proc. civ. (applicabile a tutti i decreti camerali, salvo speciali normative derogatorie, giusta l’art. 742 bis cod. proc. civ.), fin tanto che non sia dichiarata la chiusura del fallimento (art. 119 L.F.) ed esaurimento, quindi, di ogni potere di provvedere in ordine alla procedura fallimentare (cfr. Trib. Torino 26.3.1954, Foro it., 1955, I, 307; Cass. 7.3.1963, n. 550, Giur. it., 1963, I, 1, 972). (omissis)

II
(omissis)
2.1.  La disposizione dell’art. 21, 3° comma, L.F., secondo la quale, in caso di revoca del fallimento, il curatore può ottenere il pagamento del compenso e delle spese, in tutto o in parte, secondo le modalità stabilite dalle speciali norme vigenti per l’attribuzione di compensi ai curatori, che non poterono conseguire adeguate retribuzioni, qualora il creditore istante non sia stato condannato ai danni, per avere chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa (nella quale ipotesi, invece, le spese di procedura ed il compenso al curatore sono a carico del creditore istante), è inoperante, dal momento che il “fondo speciale degli amministratori giudiziari”, istituito con legge 10 luglio 1930, n. 995, allo scopo, fra l’altro, di far, appunto, conseguire ai curatori adeguate retribuzioni, è stato soppresso, unitamente al “ruolo degli amministratori giudiziari”, con D. Lgs. C.p.S. 23 agosto 1946, n. 153.
2.2.  Non è applicabile alla fattispecie (revoca del fallimento senza condanna del creditore istante ai danni), quanto al compenso ed alle spese dovuti al curatore, l’art. 91 L.F., che prevede l’anticipazione a carico dell’erario delle “spese giudiziali per gli atti richiesti dalla legge”, atteso che tale norma presuppone che il fallimento sia in corso, non già che esso sia stato revocato, e, d’altro canto, le spese, cui ha riguardo, sono solo quelle necessarie per singoli determinati atti della procedura previsti dalla L.F., sicché non comprendono il compenso e i rimborsi per l’attività espletata dal curatore, come pure per l’opera prestata da terzi nell’interesse del fallimento. 
2.3.  La Corte Costituzionale, con sentenza 6 marzo 1975, n. 46, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 21, 3° comma, L.F., nella parte in cui, nel caso di revoca della dichiarazione di fallimento, pone, a carico di chi l’abbia subìta senza che ne ricorressero i presupposti e senza che vi avesse dato causa col suo comportamento, le spese della procedura ed il compenso al curatore. 
2.4.  La medesima Corte, con sentenza 22 novembre 1985, n. 302, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 21 e 91 L.F., nella parte in cui tali norme non prevedono che il compenso al curatore, in caso di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento ed in assenza di una pronuncia di responsabilità per colpa del creditore o del debitore, sia posto a carico dell’erario (cfr., altresì, Corte Cost. (ord.) 27.7.1994, n. 368).
2.5.  In conclusione, alla stregua della legislazione vigente, in caso di revoca del fallimento, il compenso e le spese dovuti al curatore fanno carico all’ex fallito, solo ove sia accertato che costui aveva dato causa alla dichiarazione di fallimento col suo comportamento; fanno, invece, carico al creditore istante, solo ove costui sia stato condannato, con la sentenza di revoca, ai danni, per avere chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa; mentre in ogni altra ipotesi non possono trovare soddisfazione, nemmeno a carico dell’erario.
2.6.  Il tribunale fallimentare, ossia il tribunale che ha dichiarato il fallimento, poi revocato, è, comunque, tenuto, a norma dell’art. 21, 2° comma, L.F., a liquidare le spese della procedura ed il compenso al curatore, “con decreto non soggetto a reclamo, su relazione del giudice delegato”.
Tale decreto, tuttavia, pronunciato all’esito di un procedimento in camera di consiglio, senza contraddittorio, non può contenere l’accertamento della responsabilità dell’ex fallito, per aver dato causa col suo comportamento alla dichiarazione di fallimento, giacché simile accertamento suppone una controversia su posizioni di diritto soggettivo, la quale esige di essere decisa in un ordinario giudizio di cognizione, dunque con sentenza, nel contraddittorio dell’ex fallito, non essendo per essa previsto dalla legge, in via eccezionale, un diverso procedimento giudiziale. L’art. 21, 2° comma, L.F., assegna, infatti, a contenuto del decreto camerale da essa previsto, la mera liquidazione delle spese e del compenso al curatore, non anche l’attribuzione del carico di questi oneri al creditore o al debitore.
2.7.  Qualora la sentenza di revoca del fallimento non contenga alcuna pronuncia sulla responsabilità del creditore istante o del debitore fallito, il tribunale deve, dunque, limitarsi semplicemente a liquidare spese e compenso, salvo, poi, il diritto del curatore di agire in via ordinaria, per conseguire quanto gli è dovuto, nei confronti di chi sia obbligato al pagamento (Trib. Roma 9.11.1995, Fall. Autoparco Centro Italia Morlupo S.r.l.).
3.1.  Il compenso al curatore va liquidato, ai sensi dell’art. 39 L.F., secondo le norme stabilite con decreto del Ministero di Grazia e Giustizia.
Il D.M. 28 luglio 1992, n. 570, attualmente vigente, prevede, all’art. 2, 1° comma, che, “qualora il curatore cessi dalle funzioni prima della chiusura delle operazioni di fallimento, il compenso è liquidato con i criteri indicati nell’art. 1, tenuto conto dell’opera prestata”. In tale previsione normativa rientra, evidentemente, anche il caso della revoca del fallimento, intervenuta prima della chiusura della procedura (art. 119 L.F.), giacché anche in questo caso il curatore cessa dalle funzioni, per effetto della revoca, prima della chiusura delle operazioni di fallimento.
3.2.  Pure nel caso considerato, quindi, il compenso al curatore dev’essere determinato con le percentuali di cui all’art. 1 del citato decreto, sull’ammontare dell’attivo realizzato e sull’ammontare del passivo accertato, ma “tenuto conto dell’opera prestata”, ossia in proporzione alle operazioni procedurali effettivamente compiute, e valutando, altresì, i risultati ottenuti, l’importanza del fallimento e la sollecitudine con cui sono state condotte le operazioni. 
3.3.  Per “attivo realizzato”, anche nel caso di revoca del fallimento, deve intendersi la totalità delle somme incassate dal curatore a qualunque titolo, che ne comporti la definitiva acquisizione al patrimonio fallimentare, ossia l’assoggettamento all’esecuzione concorsuale, senza che si possa, comunque, tener conto del valore dei bei inventariati, ma non liquidati (cfr. Cass. 2.12.1993, n. 11952, Fallimento, 1994, 567; Cass. 29.1.1993, n. 1169, Fallimento; 1993, 809; Cass. 17.11.1979, n. 5976, Dir. fall., 1980, II, 34; Trib. L’Aquila 19.5.1964, Giur. it., 1965, I, 2, 198). In esso vanno compresi, dunque, il danaro liquido rinvenuto nella disponibilità del fallito e gli interessi maturati sulle somme depositate dal curatore (art. 34 L.F.), ma da esso vanno escluse le somme ricevute dal curatore per un titolo che comporti un obbligo di restituzione; così, le somme ricevute a titolo di deposito, cauzione o mutuo.
 



Modificabilità della liquidazione del compenso del curatore

[1-3] osservazioni a sentenza - torna alla massima
[I] Il decreto del Trib. Roma, con cui vengono modificate le precedenti situazioni in tema di compenso del curatore fallimentare, si pone in linea con l’orientamento che vuole tali provvedimenti sempre modificabili fino alla chiusura della procedura concorsuale, in forza del disposto dell’art. 742 cod. proc. civ. [1].
Deve in proposito ricordarsi che non tutti i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio si concludono con decreto del Tribunale: alcuni di essi, come quelli in tema di interdizione e inabilitazione (artt. 712 e segg. cod. proc. civ.) e di dichiarazione di assenza e morte presunta (artt. 721 e segg. cod. proc. civ.) vengono definiti con un provvedimento che assume la forma della sentenza. 
La conseguenza più evidente di ciò è proprio l’inapplicabilità a tali provvedimenti dell’art. 742 cod. proc. civ., per cui essi vanno soggetti soltanto agli ordinari mezzi di impugnazione. 
Ciò non significa, tuttavia, che anche alcuni dei provvedimenti presi in camera di consiglio che assumono la forma del decreto motivato non abbiano carattere decisorio, nel senso che, indipendentemente dalla forma, abbiano capacità lesiva o, comunque, dispositiva di diritti soggettivi, per cui debbono poter essere impugnati in Cassazione per violazione di legge, come disposto dall’art. 111 della Costituzione. 
Tale principio è stato ribadito dalla Corte di cassazione anche con espresso riferimento ai decreti di liquidazione del compenso del curatore fallimentare [2]. 
Il problema è allora quello di verificare se, al di là della forma assunta dal provvedimento camerale, la sua natura sostanziale, decisoria o meno, costituisca l’effettivo discrimine tra assoggettabilità agli ordinari mezzi di impugnazione da una parte e revocabilità-modificabilità da parte dello stesso Tribunale, dall’altra. In altre parole, si tratta di vedere se esista o meno un rapporto di alternatività tra mezzi di impugnazione ordinaria e revocabilità-modificabilità, con riguardo ai provvedimenti camerali. 
Posto che non pare possa revocarsi in dubbio la natura decisoria dei provvedimenti di liquidazione del compenso del curatore (ma lo stesso dicasi per quello del commissario giudiziale) e, conseguentemente, l’impugnabilità degli stessi per violazione di legge ai sensi dell’art. 111 Costituzione [3], vi è da chiedersi entro quali limiti possa trovare ingresso il potere dello stesso Tribunale di modificare o revocare il decreto di liquidazione del compenso precedentemente emesso. Non porsi questo problema significherebbe sottovalutare l’efficacia di giudicato che l’assoggettamento allo strumento dell’impugnazione innanzi alla Corte di cassazione necessariamente porta con sé.
Infatti, se è vero che l’inutile decorso del termine per ricorrere in Cassazione avverso un decreto di liquidazione del compenso comporta il passaggio in giudicato dello stesso decreto con conseguente intangibilità delle statuizioni dallo stesso portate, l’indiscriminata applicazione dell’art. 742 cod. proc. civ. farebbe sì che l’efficacia del giudicato risulterebbe vanificata da interventi d’ufficio del Tribunale, senza prefissione di termini e contenuti.
Tale paradossale conseguenza può essere scongiurata solo laddove si circoscrivano i presupposti ed i limiti degli interventi modificativi o revocativi del Tribunale consentiti dall’art. 742 cod. proc. civ., consentendo l’esercizio di tali poteri solo in presenza di fatti nuovi e sopravvenuti che determinino, quasi in via automatica e di necessità, una diversa applicazione della norma. 
In tal senso, del resto, si muove il decreto del Trib. Roma in commento, laddove giustifica il proprio intervento alla luce di un fatto nuovo e sopravvenuto rispetto a quello della prima liquidazione, quale il realizzo da parte del curatore di un credito IVA che, incrementando il valore dell’attivo realizzato, era andato ad incidere su uno dei due parametri monetari, alla luce dei quali il compenso deve essere liquidato.
Diverso sarebbe stato se il Tribunale fosse stato chiamato ad una nuova valutazione del principio di diritto da esso precedentemente affermato con la prima liquidazione, alla stregua di una pubblica amministrazione che, re melius perpensa, annulli in via di autotutela un provvedimento già preso che ritenga viziato da un errore di diritto. Che di tale potere di autotutela non possa ritenersi investito il Tribunale fallimentare, deriva proprio dalla ricorribilità in Cassazione avverso siffatti provvedimenti e dal meccanismo del giudicato che a tale ricorribilità consegue: tale meccanismo sarebbe vanificato se il Tribunale fallimentare potesse rivedere le proprie determinazioni sul compenso al curatore, indipendentemente da un fatto nuovo sopravvenuto ad una prima liquidazione, anche per correggere un errore di diritto dal quale il provvedimento dovesse risultare poi affetto.
Per concludere dunque, tra modificabilità e revocabilità del provvedimento del compenso del curatore e sua impugnabilità in Cassazione sembra esistere un rapporto di alternatività, in forza del quale la revoca o la modifica possono essere adottate solo in presenza di fatti nuovi o comunque non attuali al momento della liquidazione, mentre il ricorso per Cassazione appare come lo strumento idoneo per denunciare errori di diritto nella determinazione del compenso liquidato.

[2-3]  Tra i non pochi problemi logico-giuridici che scaturiscono dalla revoca di una sentenza dichiarativa di fallimento, vi è quello della individuazione del soggetto obbligato al pagamento delle spese di procedura e del compenso del curatore. Quando il creditore istante sia stato condannato al risarcimento dei danni per colposa domanda di fallimento, tali spese sono a carico dello stesso creditore, secondo quanto disposto dall’art. 21, comma 3, L.F..
Vi è poi la possibilità che lo stesso debitore, con la sua condotta colposa, abbia dato luogo alla dichiarazione di fallimento. Solo in tal caso, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 6 marzo 1975, n. 46 [4], le spese della procedura e il compenso del curatore potranno essere posti a suo carico. 
Al di fuori delle ipotesi, tra loro speculari, appena accennate non vi è alcuno strumento, per il curatore, di vedere soddisfatte le sue pur legittime pretese in ordine al compenso professionale, che sarà quindi liquidato dal Tribunale fallimentare, ma non potrà essere esatto nei confronti di chicchessia.
Del resto lo stesso decreto in commento dà ampio conto delle ragioni, ad oggi insormontabili sul piano interpretativo ed applicativo, che impediscono una adeguata tutela delle aspettative dei curatori fallimentari. 
Ciò posto, si deve condividere la puntuale individuazione dei limiti del decreto di liquidazione del compenso, che non può pronunciarsi su profili di responsabilità civile dell’ex fallito, difettando del requisito del contraddittorio tra quest’ultimo ed il curatore. Pertanto, liquidato il compenso secondo i criteri che poi vedremo, sarà onere del curatore agire nei confronti del fallito per farne pronunciare la condanna al pagamento del compenso (precedentemente liquidato), in esito ad un ordinario giudizio di cognizione.
Ciò presuppone, tuttavia, che la sentenza con cui si sia revocato il fallimento non contenga alcuna statuizione sull’eventuale responsabilità del creditore istante o del debitore fallito.
Quando l’opposizione sia proposta dal fallito, è ben possibile che lo stesso chieda con la stessa la condanna del creditore istante al risarcimento dei danni subìti in conseguenza del fallimento di cui si assume l’illegittimità.
Quando invece motivo dell’opposizione sia, ad esempio, la mancata audizione del fallendo, sembra assai difficile che possano emergere profili di responsabilità a carico del creditore istante o dello stesso debitore. Così come diventa impossibile configurare una responsabilità di alcuno dei creditori quando il fallimento sia stato dichiarato d’ufficio o su istanza del P.M..
Nel caso in cui il profilo relativo alla responsabilità del creditore istante non sia stato introdotto nell’ambito del giudizio di opposizione, in ordine al quale è competente il Tribunale fallimentare (art. 18 L.F.), sembra di poter affermare che il curatore che abbia interesse alla pronuncia di responsabilità del creditore istante o dell’ex fallito debba adire il giudice ordinario individuato secondo i criteri di competenza per valore, venendo meno la competenza funzionale del Tribunale fallimentare con la sentenza di revoca del fallimento.
Nella individuazione del giudice competente a conoscere della domanda sulla responsabilità dell’ex fallito o del creditore istante, dovrà necessariamente farsi riferimento alla liquidazione operata dal Tribunale fallimentare, poiché l’oggetto del giudizio instaurato dal curatore saranno esclusivamente l’accertamento della responsabilità in capo al creditore istante o all’ex fallito e la conseguente condanna dell’uno o dell’altro al pagamento di una somma già determinata. 
Pertanto, se il curatore configura la domanda come domanda di condanna al pagamento della somma liquidatagli dal Tribunale fallimentare, nulla quaestio, poiché il valore della causa ai fini della competenza sarà determinato in base alla domanda; qualora invece il curatore si limiti a configurare la domanda come domanda generica, volta semplicemente ad accertare la responsabilità dell’ex fallito o del creditore istante, il convenuto potrà ben contestare la competenza del giudice adìto, sulla base della liquidazione operata dal Tribunale fallimentare, in forza di quanto previsto dall’art. 14 cod. proc. civ..
Quanto al criterio adottato dal Tribunale per determinare il compenso, esso muove dalla sussunzione dell’ipotesi in esame a quella prevista dall’art. 2. comma 1, del Decreto del Ministero di Grazia e Giustizia 28 luglio 1992, n. 570 (Adeguamento dei compensi spettanti ai curatori di fallimento e determinazione dei compensi nelle procedure di concordato preventivo e di amministrazione controllata). Ciò a dire che l’ipotesi di cessazione dalle funzioni per effetto della revoca della sentenza dichiarativa di fallimento equivale a quella di cessazione dalle funzioni prima della chiusura delle operazioni fallimentari. 
La rigorosa linea seguita in ordine alla determinazione dell’attivo realizzato, da cui sono stati esclusi non solo e non tanto le somme detenute in forza di un titolo che ne comporti l’obbligo di restituzione, condivisibile in ragione del fatto che tali somme non sarebbero comunque andate a beneficio del ceto creditorio, ma anche i beni inventariati ma non ancora venduti e tutto quanto non sia ancora somma liquida disponibile da parte del curatore, sovverte l’orientamento in passato assunto dallo stesso Trib. Roma [5], che aveva ricompreso nell’attivo fallimentare il ricavato delle operazioni di liquidazione, il complesso dei beni inventariati, dei crediti e degli incassi conseguiti dal curatore. 
La soluzione, peraltro, è conforme al rigoroso orientamento della giurisprudenza di legittimità [6], secondo la quale, tuttavia, nel concetto di “attivo realizzato” debbono comprendersi non solo la liquidità acquisita dalla curatela mediante la vendita di beni mobili o immobili, ma tutta la liquidità comunque acquisita, e perciò anche mediante la riscossione di crediti o mediante azioni giudiziali, ovvero reperita nella disponibilità dell’imprenditore fallito, all’inizio della procedura concorsuale [7].


Note
[1] Trib. Velletri, 18 giugno 1994; Trib. Piacenza, 2 maggio 1994; Trib. Vercelli, 21 aprile 1994; tutte in Il falli-mento e le altre proce-dure concorsuali, 1994, pag. 1082; contra, con riguardo al compenso del Commissario giudiziale: Trib. Civitavecchia, 1 aprile 1996, inedito. -torna al testo

[2] Cass. sez. 1, 14 aprile 1994, n. 3517; sez. I, 22 febbraio 1994, n. 1730, in Foro it., 1994, 1, 1763. -torna al testo

[3] Poiché i decreti camerali devono essere motivati, in forza di quanto disposto dall’art. 737 cod. proc. civ., non è difficile far rientrare il difetto di motivazione tra le violazioni della legge che possono essere denunciate in sede di ricorso alla Corte di Cassazione ex art. 111 della Costituzione: in questi termini Cass. Sez. I, 4 giugno 1983 n. 3810. -torna al testo

[4] La sentenza può leggersi in Foro it., 1975, I, 509. -torna al testo

[5] Trib. Roma, 26 maggio 1983 in Dir. fall., 1983, II, 1166; Trib. Roma, 20 maggio 1983, in Foro it. 1983, I, 1731. -torna al testo

[6] Cass. 8 novembre 1973, n. 2935, in Giur. it., I, 1175. Cass. 17 novembre 1979, n. 5976, in Dir. fall. 1980, II, 34. -torna al testo

[7] Cass. 29 gennaio 1993, n. 1169, in Il fall. 1993, 809; Cass. 
2 dicembre 1993, n. 11952, in Dir. fall. 1994, II, 749. -torna al testo


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