L'INTERVISTA

Stefano Gargiullo, commercialista, professore di Statistica all’Università di Siena,
ci racconta la sua esperienza di archeologo subacqueo e di editore.

"Cercare nel mare il
segno dell'uomo"
di M. Gabriella Belisario e Maurizio Calò
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Sepolti nelle acque del Mediterraneo giacciono innumerevoli
tesori archeologici ancora legalmente non ben tutelati,
di cui l’anfora è il testimonial  più eccellente

Verdi diceva che la musica bisogna averla in corpo. Tutto bisogna averlo in corpo. La poesia, la letteratura, la fisica, la chimica, l’amore, tutto; aver dentro una cosa non vuol dire solo amarla, vuol dire conoscerla da sempre. Nelson odiava il mare... lo vomitava... e non c’è stato marinaio più marinaio di lui” (Vittorio G. Rossi, Maestrale, 1976, Mondadori).
Anche Stefano Gargiullo, dottore commercialista, professore di Statistica aziendale e industriale all’Università di Siena, ha il mare dentro, una passione che ha dato un’impronta profonda alla sua vita, ai suoi studi, alle sue scoperte, alle sue letture. Con il mare e per il mare è diventato editore fondando l’IRECO, l’Istituto di Ricerche Ecologiche ed Economiche che, tra l’altro, pubblica i suoi libri. E mentre lo intervistiamo cerchiamo di capire perché l’acqua sia il secondo elemento naturale di questo solido professionista che come un vero uomo di mare è di poche parole e riesce a trasmettere quella pacatezza che sembra conservare in ogni circostanza, sia essa una burrasca o un amico sub in difficoltà: “Quando avevo sei anni mio padre mi portò per la prima volta sott’acqua con la maschera. Andavamo a zonzo in apnea lungo le coste laziali, poi cominciammo a sondare le coste dell’Argentario per arrivare a Gian-nutri e a Ponza. Da allora non ho smesso mai. La visione del mondo sottomarino mi ha conquistato per sempre: questa realtà capovolta, gli scogli vellutati di alghe brune, fasciati di organismi vibranti, le diverse altimetrie del fondale, valli, foreste, montagne improvvise e l’acqua piena di vita, di pesci che ti appaiono all’improvviso prima di fuggire con una rapida virata. Con il fondo ora gremito di ricci, ora come un letto di sabbia un po’ opaco e polveroso. Fra le rocce forate dai balani e quelle rese ruvide dalle chiocciole di mare, ogni tanto un collo d’anfora, un frammento di dolium, un’ancora, colonne di marmo, il fasciame di una nave e poi un relitto, a volte adagiato, a volte sommerso sotto la sabbia. Un segno, il segno dell’uomo riposto chissà da quanto tempo laggiù per sempre”. Una vita di esplorazioni, di viaggi e di immersioni. Stefano Gargiullo prosegue: “Il mare non invecchia, si rinnova continuamente, non c’è storia sul mare, non c’è traccia, non c’è solco di ruota o incisione del ferro. Nel mare l’uomo si immerge, ma l’acqua si richiude sopra. Il mare prende, nasconde, ripara, conserva, solo nel profondo dei suoi abissi perché lassù, sulla superficie, tutto è ogni giorno completamente nuovo. Anche Alessandro Magno provò l’impulso di scendere sott’acqua e si fece costruire una campana di vetro per immergersi per pochi metri. 
A venti metri di profondità tutto è omogeneamente grigio o blu e ti chiedi perché alcuni pesci o alcuni coralli siano così colorati quando laggiù le gamme cromatiche non sono percepibili. Da quella prospettiva diversa, senza gravità, si é andato delineando, per me, un altro mondo vastissimo, punteggiato da testimonianze che il mare conserva e di cui la storia ha bisogno.
Notai che le cose conservate nel mare erano talmente numerose e ricche da costituire un enorme tesoro attingibile da chiunque. L’analisi dei relitti e dei manufatti conservati nelle profondità marine serve a ripensare le abitudini e la vita dei popoli che navigarono nel Mediterraneo. Da un modello di anfora e dal suo contenuto possiamo ricostruire il luogo di produzione e la destinazione, la rotta della nave. Ma perché tutto questo avvenga bisogna avere “l’anagrafico” del ritrovamento, cioè il luogo, la profondità, il contesto. Uno scavo condotto male o, peggio, un asporto, cancella questa identità. L’archeologia marina avrebbe bisogno di un intervento normativo perché ci troviamo in assenza di leggi specifiche”.
 

Dunque l’uomo di legge prende il sopravvento sull’uomo di scienza e di cultura? C’è un vuoto legislativo che espone le risorse sommerse dell’Italia e del Mediterraneo ad essere depredate?
La legge ancora in vigore è la 1089 del 1/6/39 sulla scoperta fortuita dei tesori ed è l’unica normativa vigente. Certo non è possibile, attraverso di essa, né salvaguardare né tutelare adeguatamente i nostri beni sommersi. Dopo un periodo non breve, in cui le scoperte continue di reperti e relitti dovute a sub dilettanti avevano colto impreparati gli archeologi “terrestri”, oggi è stato creato un apposito “Servizio Tecnico dell’Archeologia Subacquea” (STAS), presso il Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali che, con mezzi ancora limitati, sta effettuando importanti interventi e coordinando l’attività delle forze di Stato interessate. 
Per quanto riguarda la ricerca in alti fondali, è stata sottoscritta il 14 maggio 1998 una convenzione tra il Ministero dei Beni culturali e il Ministero della Difesa: la Marina Militare mette a disposizione navi, tecnologie ed esperienza (dragamine, minisommergibili, ecc.) per avviare una campagna quinquennale di ricerche. Forse le recenti incursioni degli americani nel mare nostrum hanno convinto i politici dell’importanza della tutela e della ricerca dell’enorme patrimonio 
sommerso.

Dopo tante esplorazioni, lei ha pubblicato un atlante archeologico dei mari d’Italia dove, seguendo le coste d’Italia, sono state raccolte e coordinate non solo le sue esperienze ma anche tutte le segnalazioni di relitti provenienti dagli appassionati e dai dilettanti. Un lavoro così completo e interessante, può costituire un riferimento anche per i ricercatori senza scrupoli?
Questo atlante è una sfida che abbiamo lanciato a tutti gli appassionati del mare perché intendiamo sollecitare la più ampia collaborazione delle Soprintendenze affinché non solo si provveda ad una più estesa e severa legislazione, ma anche ad una puntuale opera di vigilanza, tutta da organizzare. E comunque la conoscenza dei siti sommersi può essere importante sia per la tutela che per la salvaguardia dell’immenso patrimonio archeologico subacqueo. D’altronde le profondità marine cominciano ad essere una terra di nessuno e di conquista che comincia a far gola alle grandi imprese che fanno del recupero dei relitti un business. 

Questo vale anche per il mare nostrum oltre che per gli oceani?
Sicuramente, anzi l’utilizzazione di mezzi di ricerca subacquea in profondità, piccoli batiscafi con ecoscandagli, ha consentito negli ultimi anni la scoperta di reperti inimmaginabili nei fondali del Mediter-raneo.
Sono recenti le stupende immagini apparse nel corso delle prospezioni ordinate dalla magistratura sul relitto dell’aereo di Ustica. Dalle pur poche foto delle quali è stata consentita la pubblicazione, e pur nell’assai ristretto ambito territoriale nel quale sono state effettuate le indagini, si sono potuti riconoscere ben tre relitti di antichi naufragi, due risalenti ad epoca romana ed uno medioevale. Questa esperienza ha insegnato che in un qualsiasi punto del pagliaio si voglia guardare, si possono trovare non uno, ma tre aghi!

Esiste una stima del numero dei tesori inabissati?
Alcuni calcoli assai approssimativi hanno stimato in “decine di migliaia” i relitti di navi da trasporto o da guerra, perfettamente conservati, giacenti su fondali profondi nel Mediterraneo, molti dei quali ricchi di tesori non solo archeologici.
Queste cifre hanno attirato l’attenzione di alcune imprese americane specializzatesi, negli ultimi anni, nella ricerca e recupero di relitti e tesori sommersi, che spesso hanno ottenuto risultati clamorosi con il rinvenimento di carichi di oro e preziosi, specialmente nella zona del Mar dei Caraibi. 
Se queste organizzazioni, che hanno necessità di operare continuamente e con risultati positivi per ammortizzare gli elevatissimi costi di manutenzione e di ammodernamento di tecnologie raffinate, si orientassero nelle acque internazionali del Mediterraneo, probabilmente troverebbero del tutto impreparati gli organismi di tutela del nostro patrimonio archeologico. Infatti, non esiste, al momento, un organismo sovranazionale in grado di varare una legislazione comune ed efficace per quanto concerne le acque internazionali del Mediterraneo ed ancor meno di farla poi rispettare.
In epoca antica il trasporto via mare era quello privilegiato dalle regioni che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo: esso, infatti, si presentava prevalentemente calmo e con una buona visibilità per gran parte dell’anno, si poteva bordeggiare navigando a vista. Inoltre, numerosi erano i ripari o approdi in caso di necessità, eppure le tempeste non hanno risparmiato la navigazione in tutte le epoche, da quella fenicia, greca e romana fino ai nostri giorni. 
 

Torniamo a parlare di tesori e di rinvenimenti straordinari. Ce ne è stato uno che fece parlare di sé in modo particolare?
Recentemente, tra Ventotene e l’Isola di Santo Stefano, sopra un fondale sabbioso chiamato Secca delle Grottelle, fu rinvenuto quello che possiamo definire lo yacht di Augusto. Per caso, nel corso di un normale controllo, la Guardia di Finanza fermò un’imbarcazione tedesca a bordo della quale c’erano delle anfore romane di tipo Dressel 1,B (dal nome dello studioso che per primo catalogò questi contenitori) in perfetto stato di conservazione. Era l’estate dell’83 e cominciarono le ricerche. Il relitto giaceva a 42 metri di profondità, era già stato purtroppo parzialmente saccheggiato ma tutto quello che rimaneva era ancora straordinario. 400 reperti di bronzo, avorio, osso, ceramica e legno hanno permesso di ipotizzare che questa nave, dalle rifiniture di lusso, fosse stata costruita per scopi di rappresentanza, per trasportare comodamente personaggi e notabili. Tra l’altro è stata rinvenuta un’ara sacrificale, un catino di marmo dove veniva tenuto acceso il fuoco sacro e un’ancora di tipo “ammiragliato”. Questa nave risale al periodo in cui Augusto era stato costretto a confinare la figlia, con un’apposita legge, la Lex Julia, a Ventotene a causa della sua discussa condotta morale, esilio forse malinconico, ma dorato, consumato nella splendida villa di Punta Eolo e comunque corredato da tutte le comodità.
Era il primo secolo dopo Cristo e la presenza di Giulia nell’arcipelago pontino rese comunque Ventotene un centro di potere politico e culturale, intensificando gli scambi e le rotte con la terraferma. Così solo tra Ventotene e l’Isola di Santo Stefano, quindi in un braccio di mare di poche miglia, sono stati trovati ben due relitti entrambi molto interessanti. Ma per quanto riguarda lo yacht di Augusto c’è di più: la testimonianza palpabile della vita, ovvero il tentativo di ricostruirsi una vita normale, anche lontano dalla Città Eterna. Si stavano trasportando, al momento del naufragio, avvenuto presumibilmente a causa di un incendio di cui si trovano ancora le tracce sotto il mare, le piccole e grandi comodità della Roma Imperiale: alcuni stili per la scrittura in avorio, ancora chiusi nel loro astuccio di legno, e molti altri sfusi, bulini per incidere e graffire, piccole tazze, manici di avorio, residui di vasellame pregiato, sandaletti di legno e piccole sculture, testine in osso magistralmente incise, placche di bronzo finemente lavorate, elementi decorativi del klinai (letti-divani) e di altri mobili presumibilmente di fattura siriana. E poi le anfore, alcune ancora sigillate, piene di nocciole, spezie, graspi di uva e garum, la salsa di pesce cara ai Romani. Anche se ci sono stati, dal ’50 ad oggi, rinvenimenti più clamorosi, navi onerarie affondate a pieno carico, che ci raccontano molto sui commerci dei romani con Spagna, Grecia e Asia Minore, solo in questo caso si è sollevato un velo sugli aspetti più segreti dell’esilio, istituzione molto applicata in epoca imperiale, come testimonia l’enorme quantità di penne pronte a scrivere chissà quali segreti, accuse, delazioni o memorie nel triste isolamento di Ventotene. 

Dicevamo di navi commerciali imponenti rinvenute intatte in Italia. Dove?
Parliamo subito del relitto di Albenga, un ritrovamento cardine, che ha costituito la base di una nuova disciplina: l’archeologia marina. È la più grande nave oneraria di epoca repubblicana mai conosciuta: lunga 40 metri, larga 10, con un carico di 11.000 anfore vinarie disposte fino a 9 strati. Potremmo dire oggi, con linguaggio moderno, una nave cisterna. 1300 anfore di questo carico, perfettamente conservate e recuperate, sono visibili al Museo Navale Romano di Albenga. Era il 1950: i pescatori del luogo, dicevano che a circa un chilometro e mezzo dalla foce del fiume Centra, esistevano i resti di una nave romana enorme, quasi leggendaria. Il professor Lamboglia si accinse a cominciare una vera e propria campagna di scavo. È chiaro che i mezzi furono improvvisati e che i metodi di quel primo intervento fecero molto discutere, ma questa nuova branca dell’archeologia terrestre stava muovendo i primi passi. Seguirono anni di ricerche, di rinvenimenti e di inventari. La nave, all’incirca della prima metà del I° secolo a.C., era colata a picco molto rapidamente a causa del gran peso, ma senza riportare gravi danni alla struttura. Trasportava vino, grano e nocciole, presumibilmente dalla terra di Spagna, e il suo equipaggio era armato perché furono rinvenuti anche elmi di bronzo.

Soprattutto allora, era importante distribuire il peso e organizzare bene le operazioni di carico?
Innanzitutto bisognava garantire la stabilità dell’imbarcazione e delle merci durante il viaggio, anche in condizioni di mare difficili, dal momento che un carico mal disposto poteva rendere complicato se non impossibile governare la nave.
Bisognava curare che i contenitori non si rompessero e ottimizzare gli spazi, per ragioni economiche, trasportando la maggiore quantità possibile di prodotto.
Normalmente i generi più pesanti venivano posti nella parte bassa della stiva, al centro della nave, mentre la ceramica e le merci leggere erano messe al di sopra o tra un contenitore e l’altro. Un esempio significativo è fornito dal relitto rinvenuto a La Tradelière, dove sacchi di nocciole erano posti tra le anfore e i vetri, i quali erano protetti da scatole.
Le anfore erano disposte generalmente su più livelli, 3 o 4 al massimo (la presenza di nove piani di anfore rinvenute nel relitto di Albenga deve essere considerata un’eccezione); quelle del piano inferiore erano fissate in uno strato di sabbia o di ghiaia, gli altri livelli erano disposti a scacchiera, con un contenitore ogni tre oppure ogni quattro colli di anfore dello strato inferiore. Lo spazio che si veniva a formare tra le spalle dei vasi era colmato con l’inserimento di paglia, giunchi o piccoli rami che ammortizzavano eventuali urti. 

Ci sono misteri, enigmi insoluti legati a questi ritrovamenti?
Potremmo parlare del segreto del dolium, questo enorme contenitore di terracotta a forma globulare che aveva capacità da 1200 a 3000 litri e che poteva trasportare sia olio o vino, che sementi o legumi. Per capire quanto fossero grandi bisogna pensare che quelli oblunghi contengono l’equivalente di 40 anfore, quelli sferici arrivano a 100-110 anfore. Alti 2 metri e rivestiti di pece erano, come dire, il cuore del carico. Ebbene, ogni tanto, nel mare, vicino alle isole e alle coste, si trovano dolia isolati, ma integri, come se fossero stati perduti o posati in particolari condizioni che noi oggi non riusciamo a ricostruire. Questo è il caso, per esempio, del dolium di Punta Lividonia all’Argentario, recuperato nel 1985. Poi ci sono veri e propri tesori, come quello che capitò nella rete di un pescatore nel Golfo di Baratti. Era un’anfora d’argento che aveva impressi sulla superficie ben 132 medaglioni: satiri, menadi danzanti, baccanti, eroi greci e segni zodiacali. La fattura finissima, di origine mediorientale, il valore indubbio anche nell’antichità, possono portare a supporre che facesse parte dell’ampio bottino di una nave crociata, reduce da chissà quali saccheggi e a sua volta naufragata nello specchio di mare davanti a Populonia. Luogo fecondo perché ci ha restituito, nel 1832, il famoso Apollo di Piombino e, recentemente, una bella statua di marmo del III sec. a.C. 

Si può considerare “un tesoro” una semplice anfora, anche se non in materiale prezioso? 
Questi contenitori sono un po’ l’unità di misura dell’archeologia marina. La posizione di un relitto antico è segnalata dalla presenza intorno, sopra e sotto di materiali archeologici, tra i quali le anfore hanno un ruolo preponderante. La mappa dei ritrovamenti è uno strumento importante per ricostruire le rotte e i luoghi dello scambio. Sappiamo che i traffici erano frequenti soprattutto nella parte occidentale del Mediter-raneo e ciò è dovuto principalmente alle esportazioni di vino italico nel II-I sec. a.C., all’esportazione di olio spagnolo dal I al III sec. d.C. e alle esportazioni africane dal III sec. fino ad età tardoantica. Quanto al vino, bevanda principe della dieta dei nostri antenati in epoca imperiale, cominciò ad essere distribuito gratuitamente alla plebe. Certo non era il forte Cecubo o l’abboccato Falerno o il vino resinato greco, ma a Roma, al tempo di Augusto, se ne consumava fino a un milione e mezzo di ettolitri l’anno. Furono necessarie grandi quantità di vino a buon mercato che determinarono un’inversione di tendenza del suo commercio, con conseguenti importazioni dalla Spagna e dalla Gallia. Le dimensioni e la tipologia delle imbarcazioni utilizzate per il trasporto marino sono state ormai catalogate in tre tipi: le navi più piccole, con un carico inferiore alle 75 tonnellate corrispondenti a 1500 anfore, costitui-vano il tipo più comune; quelle medie, con un carico tra le 75 e le 200 tonnellate, corrispondenti a 2000-3000 anfore, erano le “navette” del I e III sec. d.C. Un tipo più grande e in numero limitato poteva, infine, contenere oltre le 250 tonnellate (più di 6000 anfore): era considerato un trasporto “pesante” e, spesso, veniva scortato. 

Dunque l’archeologia marina ci presenta un’intensa produzione manufattiera di recipienti in ceramica, anzi questi sembrano la base della possibilità di scambio di merci tra i popoli. Come venivano fabbricate e quanti tipi se ne conoscono?
Nonostante le numerose varianti assunte nei secoli, la forma base dell’anfora rimase costante, in quanto legata alla sua funzionalità. Il collo era allungato e terminava in un orlo ingrossato che permetteva la chiusura ermetica del vaso ed evitava la fuoriuscita del contenuto. 
I primi tappi furono pigne compresse, poi con sughero e argilla si creò l’anforisco, che veniva sigillato con resina, pozzolana o calce. Il fondo era generalmente a punta e costituiva, insieme alle anse, un ulteriore punto di presa durante le operazioni di spostamento e svuotamento; esso, inoltre, permetteva di impilare facilmente i contenitori durante il trasporto. Infine le pareti dell’anfora erano notevolmente spesse così da non consentire facili danni e rotture. 
Le varie parti che componevano l’anfora erano lavorate separatamente ed unite insieme prima della cottura che avveniva in un apposito forno. Il corpo era realizzato con il tornio, mentre le anse venivano eseguite a mano e attaccate al vaso ormai completato. 
A differenziare ulteriormente questo popolare comune manufatto, c’erano le etichette del tempo. Iscrizioni graffite, le bollature con punzoni di legno garantivano le qualità della merce (data di scadenza ante litteram) esprimendo l’anno di confezione, il nome della città di provenienza, il fabbricante, il peso vuoto del recipiente, l’unità ponderale usata e il nome del prodotto. E poi, nel caso di famiglie proprietarie di ampi territori, la zona di produzione. 
Insomma queste testimonianze di ceramica ci riportano l’impressione di un commercio evoluto con “bolle di accompagno” incise o dipinte sui contenitori: a volte si indicava anche il porto d’imbarco e la data consolare. 
Le anfore che ritroviamo nel Mediterraneo non sono solo quelle della civiltà romana, le famose Dressel , dal nome dello studioso di anforologia che, per primo, nell’800, ne individuò ben 45 tipi. Ci sono bellissimi contenitori fenici, anfore greche, etrusche, galliche, spagnole, portoghesi, africane ed egiziane. Segni vivi di appartenenza ad un determinato popolo. E noi conoscendo forme fogge e dimensioni, con un’occhiata possiamo rintracciare la civiltà che ha depositato il suo prezioso carico in fondo al mare. 

Ci sono ancora speranze di clamorose scoperte archeologiche subacquee?
Solo recentemente la tecnologia ha permesso all’uomo di avere i mezzi per esplorare il fondo marino. L’archeologia subacquea è quindi, tutto sommato, ancora agli inizi, anche se il progresso delle scienze sta mettendo a disposizione strumenti sempre più efficaci per questo tipo di ricerche ed il numero degli appassionati aumenta sempre di più. L’esperienza delle indagini di Ustica, con ben tre relitti entro un raggio piccolissimo di indagine, conferma che ci sono in fondo al mare molti più reperti archeologici che non sulla terra ferma. L’archeologia subacquea contiene quindi, più che la speranza, una vera e propria promessa di scoperte clamorose, molte delle quali alla portata della maggior parte dei subacquei, come dimostra lo yacht di Augusto rinvenuto a soli 42 metri di profondità e a poche miglia dalla costa di due isole. Del resto, lo sviluppo della sensibilità per gli aspetti ecologici e ambientali e l’abbandono sempre più marcato della pesca subacquea, portano ad incrementare un “turismo” subacqueo dal quale l’archeologia ha tutto da guadagnare, se il legislatore interverrà rapidamente.



La navigazione
a vela

L’utilizzazione della forza del vento
per far navigare una barca,
liberando l’uomo dallo
sforzo muscolare del remo,
risale a circa 5.000 anni fa.

Documentazione certa di questo tentativo esiste in numerosi casi per l’antico Egitto, dove pitture murali e reperti, fin dall’epoca delle prime dinastie, testimoniano delle avanzate capacità di navigazione di quel popolo. In epoca più tarda - all’incirca 2.000 o 1.500 anni prima di Cristo - splendidi ed elegantissimi modelli di imbarcazione ci informano in maniera dettagliata sulle loro tipologie e sulle tecniche costruttive. La navigazione degli antichi egizi era essenzialmente di tipo fluviale: il Nilo, che rappresentava per questo popolo la sopravvivenza e, anzi, la prospe- rità, era anche una comoda ed ampiamente utilizzata via di comunicazione percorsa per centinaia di chilometri fino al mare.
Per gli antichi Egizi, come anche per tutti gli altri popoli dell’antichità, l’unico tipo di vela conosciuto ed utilizzato era la vela quadra: si trattava di un grande telo di stoffa, di forma all’incirca quadrata/rettangolare, sostenuto verticalmente da un albero e disteso da aste perpendicolari, che in questo modo riceve la pressione del vento, la quale viene utilizzata come forza propulsiva.
Ovviamente, una velatura di questo tipo può essere adoperata soltanto quando il vento spira, non troppo violentemente, nella direzione in cui si vuole andare, mentre è inutilizzabile in tutti gli altri casi.
Nonostante ciò, fù servendosi di imbarcazioni così equipaggiate che i Greci e i Fenici iniziarono i loro commerci, conquistando il Mediterraneo e che i Romani - un popolo inizialmente tutt’altro che marinaro, e che molto seppe imparare dai propri tradizionali nemici, i Cartaginesi - giunsero a padroneggiare le rotte di tutto il Mediterraneo, tanto da farne il mare nostrum.
Tuttavia, la necessità di trovare un mezzo che consentisse di sfruttare più ampiamente la forza del vento, anche con andature diverse da quelle di poppa, portò ad una innovazione fondamentale.
Si tratta dell’adozione della cosiddetta “vela latina”, cioè di una vela di forma quasi triangolare, sostenuta da un lungo palo (denominato “antenna”) a sua volta incardinato alla testa dell’albero, che può formare un angolo variabile con la direzione del vento, consentendo quindi la navigazione al traverso.
Le origini di questo tipo di vela si collocano in estremo Oriente, probabil- mente già quasi 4.000 anni fa, ma essa fu conosciuta e diffusa nel Mediter- raneo soltanto molti secoli dopo, nel VII sec.d.C., perché adottata dagli Arabi.
Nei secoli intorno al Mille, le imbarcazioni si dividono abbastanza distintamente in due categorie: l’una, con vela quadra, scafo di forma piena e con castelli di prora e poppa, derivava dalla nave da carico dei Romani, e dette origine ai velieri moderni (fregata e galeone); l’altra, un tipo di nave veloce, più affusolata e leggera, armata con molti remi e un albero con vela latina non ebbe seguito e si estinse con la galea.
Col progredire delle tecniche di navigazione, la vela latina fu impiegata spesso insieme alla vela quadra, dando origine a velature miste, che raggiunsero anche una notevole complessità.
Infatti, l’albero unico che aveva dominato per millenni la navigazione a vela fu affiancato sin dai primi secoli dell’era cristiana con un piccolo secondo albero, poi sviluppatosi completamente solo nel XIV sec. Poco più tardi, nel XV secolo, si impose per la navigazione d’alto mare l’imbarcazione a tre alberi, che utilizzava contemporaneamente, in diverse posizioni, sia le vele quadre che le vele latine.
Questi scafi da alto mare del XV sec., benché muniti di tre alberi, avevano comunque delle dimensioni piuttosto modeste: basti pensare che la caravella “Santa Maria”, la nave ammiraglia della piccola flotta con la quale Colombo varcò per la prima volta l’Atlantico, era lunga 26 metri, mentre la “Nina” e la “Pinta” erano ancora più piccole. Hudson, nel 1609, esplorò la grande baia americana che porta il suo nome con una caravella di soli 18 metri di lunghezza.
In seguito, l’attività di esplorazione, ma soprattutto lo svilupparsi dei commerci, diedero un impulso fortissimo alle costruzioni navali perseguendo sia l’aumento delle dimensioni che quello della velocità.
Pur con una evoluzione tecnica e costruttiva enorme, tuttavia i principi fondamentali della navigazione a vela erano ormai stati sanciti: la vela quadra fu impiegata ancora gloriosamente ed a lungo insieme alla vela latina nei bastimenti successivi, fino all’apogeo del clipper ottocentesco, il veloce scafo affusolato nato nel segno della velocità, che poteva esporre fino a 3.000 metri quadri di velatura.
Con la rivoluzione industriale cominciò il declino del veliero, quanto meno nell’ambito mercantile, risultando più conveniente affidarsi alla propulsione a vapore. Con l’avvento di questo secolo i grandi velieri praticamente sono scomparsi, anche per la comparsa dell’aeroplano, mentre sopravvivono tuttora le piccole imbarcazioni a vela da lavoro.
Oggi meravigliose imbarcazioni a vela solcano ancora una volta i mari: la navigazione sportiva e da diporto ha dato nuova vita ad un’arte antichis- sima introducendo, intorno ai primi anni ‘60, gli scafi in vetroresina.
Con il supporto di tecnologie costruttive, materiali e progettazioni sofisticatissimi, le moderne sfidanti della Coppa America e di tante altre prestigiose regate intorno al mondo riutilizzano e reinterpretano abilità e conoscenze consolidate nei secoli.
 
 

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